Gli alleati chiedono a Meloni un numero due a testa. L’ultimo strappo? Conte-Salvini. Anche Democrazia cristiana e il Partito socialista si sorvegliavano a vicenda usando questo escamotage
«’Sta cosa può portare disgrazie», s’è lasciato andare un colonnello di Giorgia Meloni qualche giorno fa, quando al tavolo delle trattative informali per la formazione del governo è stata recapitata la richiesta degli alleati di avere un vicepresidente del Consiglio a testa, uno per la Lega e uno per Fratelli d’Italia. E la mente volava indietro nel tempo, all’ultima volta che nelle case degli italiani, per giunta in diretta televisiva, erano arrivate le immagini di un «confronto» tra un presidente del Consiglio e un suo vicepremier. I due erano Giuseppe Conte e Matteo Salvini, la location era l’Aula di Palazzo Madama, l’occasione la mozione di sfiducia che il secondo aveva presentato all’indirizzo del primo, agosto 2019, subito dopo il discorso del Papeete sulla voglia di «pieni poteri». Conte parlava all’Aula riferendosi al «traditore», così lo chiamava in privato, che aveva accanto. L’autore, a suo dire, di «un’operazione che lo ha indotto a distrarsi dai suoi stessi compiti istituzionali e lo ha indotto alla costante ricerca di un pretesto che potesse giustificare la crisi di governo e un ritorno alle urne». «Su questo sbagli, amico mio», gli aveva sussurrato Salvini in un fuori onda cercato con forza, perché il soffio della sua voce arrivasse al microfono. «Mi parlerai dopo», aveva controreplicato Conte. Ed era finita là: il rapporto tra i due, poi recuperato qualche anno dopo; e, soprattutto, il governo.
Le ultime apparizioni sulla scena istituzionale della figura del vicepremier sono state foriere di sciagure. Un po’ per la malasorte, che sa metterci sempre del suo; e un po’ perché il vicepresidente del Consiglio dei ministri, solitamente imposto là dal suo partito per sorvegliare da vicino il premier, nel corso dell’attività di governo è spinto da una forza invisibile di fronte a un bivio: o litiga col premier o litiga col suo partito.
Sarà anche per questo che, una volta sperimentato l’ardito ruolo, personalità politiche di primo piano, alcuni con un luminosissimo passato alle spalle, hanno visto la loro carriera finire in un punto deceduto. Basta citare l’elenco, andando a ritroso nel tempo: Matteo Salvini e Luigi di Maio, che lo sono stati col Conte I; Angelino Alfano, che era stato vicepremier di Enrico Letta; Massimo D’Alema e Francesco Rutelli, che sedevano alla destra e alla sinistra di Romano Prodi nell’ultimo governo del Professore; Gianfranco Fini e Marco Follini, che erano stati vicepresidenti del Consiglio di Silvio Berlusconi nel lustro 2001-2006. Follini, a onor del vero, se n’era andato col rimpasto dell’ultimo anno di legislatura, quando lo scontro quotidiano col presidente del Consiglio aveva raggiunto un livello evidentemente non più sostenibile.
Questa serie storica, probabilmente, suggerirà a tutte le parti in causa un supplemento di riflessione. Fa bene un presidente del Consiglio ad accettare di essere marcato stretto da più vice? E fanno bene gli altri partiti della coalizione a mandare dei loro esponenti di primo piano così vicini al presidente del Consiglio? I sostenitori della necessità di avere due vicepremier di Giorgia Meloni, che forse sono più dentro Forza Italia, riflettono sull’epoca d’oro in cui le cariche servivano davvero a riequilibrare il quadro politico. Quando Democrazia Cristiana e Partito socialista si sorvegliavano da vicino usando questo escamotage. O, meglio ancora, quando per un vicepremier andava tutto talmente bene che poi finiva per ritrovarsi presidente della Repubblica senza mai essere stato presidente del Consiglio. È successo a Luigi Einaudi e a Giuseppe Saragat, entrambi vice di De Gasperi. E, molto più di recente, anche a Sergio Mattarella, che fu solitario vicepresidente del Consiglio nel primo governo guidato da Massimo D’Alema.
29 settembre 2022 (modifica il 29 settembre 2022 | 23:10)
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Tommaso Labate , 2022-09-29 21:10:23 ,