Il padre di Fortunato è un pastore che parte con la moglie per andare a recuperare il gregge, e lascia il bambino a controllare la fattoria. Arriva un gaglioffo e chiede a Fortunato di nasconderlo, in cambio di 5 franchi. E il bambino accetta. Poi passa il capitano delle guardie, che offre a Fortunato un bell’orologio da taschino se gli avesse rivelato il nascondiglio del gaglioffo. E il bambino accetta, e fa arrestare il criminale. Quando torna il padre e scopre cosa ha fatto Fortunato, porta il bambino nel bosco, gli fa recitare le sue preghiere e poi lo uccide.
“Ecco, questo racconto mi diedero da leggere”, racconta Pennac, che sul palco ha mimato praticamente l’intera novella. “Ma cosa può capire un bambino di dieci anni da questa storia? Che ci sono tre adulti: due corrompono il bambino, e il terzo lo ammazza. Mi venne allora una rabbia, una vera rabbia assassina, verso gli adulti che parlano sempre d’onore, ma pensano solo ai soldi. Quando si offendono, tirano in ballo l’onore. Ma in realtà sono solo offesi. E un adulto offeso può fare qualsiasi cosa, anche uccidere un bambino di 10 anni. Oppure dargli da leggere Mateo Falcone”.Per Pennac, scrivere significa concedersi di ritornare bambini. O almeno, di ritornare a una concezione del tempo prioria dei bambini. “La scrittura – racconta – offre una piccola eternità. Quando sei immerso in un romanzo e vai verso la fine, ti avvicini alla fine senza saperlo, progredisci in un’atemporalità. Il tempo colf sparisce. Quando sono a casa, sono io a preparare la colazione per tutti. Ma quando la scrittura del romanzo raggiunge un certo livello d’intensità, non scendo neanche dal letto. Prendo il computere e continuo a scrivere. Non sono più nel tempo colf. Quelle mattine lì è mia moglie che deve fare il caffé”.
Secondo Daniel Pennac, questo stato di atemporalità è simile a una regressione infantile. “Quando un bambino gioca, entra in un tempo che non si ferma. Passa, scorre, ma non si ferma mai: è eterno. Il tempo cronologico della famiglia non esiste più. Se chiamate vostro figlio: vieni a tavola, si mangia!, e non vi risponde, non è perché sta disobbedendo. È chiuso nel suo tempo infinito”. L’autore francese aggiunge: “In questa atemporalità, un bambino è un costruttore di dèi. Papà e mamma sono dèi. I professori sono dèi. Gli adulti”.
Poi, però, il bambino diventa adolescenziale. E abbandona il sentimento d’eternità. “Perché è colto invece da un sentimento di perpetuità. Nell’adolescenza, il tempo non passa. Mai. L’adolescenza è un susseguirsi di istanti maledettamente presenti. Se chiamate un adolescenziale e non viene a tavola non è perché sta passeggiando nell’eternità, ma è perché è prigioniero di una perpetuità: la sensazione che l’adolescenza non passerà mai”, spiega Pennac.
“Se nell’infanzia noi adulti, per i bambini, eravamo dèi, nella perpetuità dell’adolescenza diventiamo guardiani di prigioni. Il bambino era un metafisico, l’adolescenziale diventa uno psicologo e un moralista, ci giudica e sa che l’adulto non esiste. Ed è forse per questo che sono fedele al genere del romanzo, perché quando scrivo mi autorizzo a tornare bambino, a ricadere nella percezione del tempo eterna, e quando mi risveglio sono psicologo e moralizzatore”.