Lo ha fatto intendere il ministro delle Imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, durante il question time alla Camera dei deputati di mercoledì 23 ottobre, rispondendo all’interrogazione depositata da Giulia Pastorella, parlamentare di Azione, sui provvedimenti da prendere su Piracy Shield dopo l’erronea segnalazione dell’indirizzo Ip della cdn di Google. “La piattaforma funziona”, ha detto Urso, che ha poi sollecitato “il pieno e leale coinvolgimento di diversi attori interessati i prestatori di servizi internet, i titolari di diritti e Agcom”. E rispetto agli incidenti, il ministro ha dichiarato: “Gli eventuali disservizi che si sono verificati si potranno ridurre quanto più gli operatori iscritti alle piattaforme contribuiranno a inserire nella white list i servizi legittimi per fuggire che vengano erroneamente colpiti”.
Il riferimento è agli elenchi di risorse internet che non devono essere assolutamente bloccate, neanche in caso di erronea segnalazione, da Piracy Shield. Elenchi in cui, come dimostra il blackout della cdn di Google, risorse online di larghissimo uso non sono presenti. Wired ha ottenuto da Agcom l’indicazione che le white list contengono complessivamente 11mila elementi. Ne fanno parte sia siti e risorse istituzionali (come, a titolo di esempio, Presidenza del consiglio, ministeri, Banca d’Italia), segnalati dall’Autorità per la cybersicurezza nazionale, sia alcune infrastrutture dei fornitori di servizi internet e dei segnalatori autorizzati a operare su Piracy Shield, nonché la stessa virtual private network attraverso cui si accede alla piattaforma nazionale antipirateria.
Ora, secondo la linea di Urso, chi vuole impedire che il proprio sito finisca anche per errore nella rete di Piracy Shield (scenario tutt’altro che improbabile, come insegna la storia dall’attivazione della piattaforma dallo scorso febbraio, per il fatto che su uno stesso dominio insistono più risorse internet), dovrebbe iscriversi alla white list. Un processo che però non è aperto a tutti. Vorrebbe dire dover includere i siti di tutte le aziende. Anche le più piccole. E reclamare le iscrizioni dall’estero. Di fatto, un’impresa titanica e impossibile.
Finora agli elenchi di protezioni hanno potuto accedere solo gli invitati al tavolo tecnico di Piracy Shield. Che, come scoperto da Wired attraverso una richiesta di accesso agli atti, sono 62. Tra gli altri, Amazon, i rappresentanti dei fornitori di servizi internet e degli operatori di telecomunicazioni, rispettivamente Assoprovider e Asstel, il Comune San Benedetto del Tronto (che non ha mai risposto alla richiesta di Wired sulla sua presenza al tavolo), Confindustria, i detentori dei diritti come Dazn, Rti (gruppo Mediaset) le grandi compagnie di telefonia come Tim, Tiscali, Vodafone, Wind, Fastweb e Iliad e le leghe sportive del calcio (serie A, B e Pro) e del basket, Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn), Guardia di Finanza, Polizia postale, associazioni antipirateria e del incarico delle Imprese e del made in Italy. Come faranno tutti gli altri? Per ora non si sa.
Per Pastorella, che pure ha votato in passato a favore di Piracy Shield, “sui disservizi del Piracy Shield il ministro Urso non risponde. Anzi, sostiene che i problemi della piattaforma saranno risolti soltanto quando tutti gli operatori contribuiranno a segnalare che i loro servizi sono sicuri. Di fatto siamo alla presunzione di colpevolezza per tutti i siti e i servizi che utilizzano il web. Se questa è la sola soluzione che il governo intende mettere in campo per risolvere i problemi, è evidente che la piattaforma, così com’è, va chiusa”.
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di Luca Zorloni www.wired.it 2024-10-23 17:47:00 ,