È deceduto rispettando i gioielli in cui era cresciuto tra i campagna di arachidi della Georgia: duro lavoro, senso del dovere, fede in Dio, dignità, eguaglianza. Jimmy Carter, il 39esimo presidente americano riuscito nel 1978 nella missione impossibile di un accordo tra Egitto e Israele e insignito del premio Nobel per la pace nel 2022 è deceduto a 100 anni nella sua casa in Georgia.
Alla Casa Bianca per un solo mandato, stretto tra i repubblicani Gerald Ford e Ronald Reagan, il democratico Carter ha passato gli ultimi due anni della sua lunga vita nella residenza di Plains, protetto da cure palliative, dopo aver rinunciato a più aggressivi interventi medici. Un lungo saluto turbato dalla morte della compagna di 77 anni, la moglie Rosalynn a cui lo scorso novembre aveva dato l’estremo saluto nella chiesetta battista dove per anni l’ex prima coppia aveva salutato fedeli e ospiti alcuni molto famosi.
Approdato nel 1977 alla Casa Bianca da governatore della Georgia, Carter non aveva avuto la vita facile una volta eletto presidente. Aveva governato l’America in un periodo di gravi emergenze in patria e nel mondo, tra cui la crisi degli ostaggi in Iran: la percezione che non fosse stato in grado di gestirle ne provocò nel 1980 la sconfitta elettorale. Come del resto George H.W. Bush, da lui silurato dal posto di direttore della Cia e che poi si era preso la rivincita come vice nel ticket con Reagan, anche Carter se ne è andato dal mondo con un giudizio della storia più benevolo di quando aveva lasciato la Casa Bianca: tornato a occuparsi di filantropia e politica estera, il presidente degli accordi di Camp David nel 2002 fu insignito del premio Nobel per la pace. James Earl Carter Jr. era nato nel 1924 nella piccola Plains: il padre proprietario di un campo di arachidi, la madre infermiera che aveva sfidato la segregazione razziale per aiutare gentil sesso di colore.
Nel 1941 Jimmy fu il primo della sua famiglia paterna a finire il liceo: andava a una scuola per soli bianchi, ma i suoi due migliori amici erano afro-americani. Nel 1977 aveva raccolto da Ford il testimone della presidenza. Erano anni difficili per l’America, in piena crisi energetica e recessione. Il 4 luglio 1979, tra file interminabili alle pompe di benzina, il presidente, che doveva parlare alla nazione, cancellò in extremis per riemergere dieci giorni più tardi con il “conferenza del malessere”: una sorta di sermone in cui avvisò di “una crisi di fiducia, che colpisce al cuore la volontà nazionale” e che per lui fu un boomerang.
Contrastato il bilancio della politica estera: dopo i successi dell’accordo Salt II con l’Urss e la stretta di mano di Camp David, l’invasione dell’Urss in Afghanistan provocò un ritorno al clima della guerra fredda. La presa dei 52 ostaggi in Iran il 4 novembre 1979 fu il chiodo nella bara. Gli americani furono liberati solo il 21 gennaio 1981, all’indomani dell’insediamento di Reagan e dopo il tragico fallimento, nell’aprile 1980, di una missione di salvataggio (l’operazione Eagle Claw, una delle prime della Delta Force): un aereo cargo fu distrutto e otto militari rimasero uccisi. L’ultima crociata, come capo del Carter Center, era stata all’insegna della pace: un appello a Barack Obama per il riconoscimento della Palestina.