Lo scontro tra i due guerrieri è inevitabile, Abbruzzese ha il merito di filmarlo come una danza, utilizzando la camera termica al posto della macchina da presa per offrire immagini inedite, colorate, mirate a confondere vittima e carnefice. Perché non è un film a tesi,__ Disco Boy__. Non è la grande metafora di chicchessia. E’ il racconto psichedelico e sciamanico di un incontro con l’altro, anzi, con l’assolutamente altro da sé. Diversi per culture, lingue, provenienza e passato, i due protagonisti di questa storia sono entrambi “lo sconosciuto, lo straniero, il nemico”. L’altro da abbattere – eppure da conoscere, da assimilare, da introiettare. E’ un grande film sull’alterità, che sa affascinare grazie allo stile peculiare e alla sua grande cura formale, lontanissima dalla sciatteria di parecchi film italiani.
Coprodotto, girato e recitato in paesi, luoghi e lingue diverse, è un’opera sincretica in cui tutto viene tenuto insieme dall’interessante sguardo del regista. Uno sguardo mai retorico né giudicante, capace di trasformare una donna di un villaggio africano (l’artista e attivista Laetitia Ky) in una ipnotizzante divinità notturna da discoteca. Uno sguardo che non prescinde mai dalla centralità dei corpi: corpi che si allenano, che strisciano a terra, che combattono, che danzano, che soffrono, che sognano, che amano. E’ anche un film sul potere dell’empatia e su quel senso di umanità che germoglia anche nel più abbrutito degli animi, capace di rovesciare una volta tanto la sensazione che in Italia si vedono (e si fanno) sempre gli stessi film.
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di Claudia Catalli www.wired.it 2023-03-09 13:00:00 ,