Ci fu un’epoca in cui il nome Bioware era garanzia di qualità, soprattutto nell’ambito dei giochi di ruolo. I primi due Baldur’s Gate, Dragon Age e Mass Effect sono senza alcun dubbio i videogiochi più famosi realizzati dalla software house canadese, ma ne possiamo ricordare molti altri, come Neverwinter Nights, Star Wars: Knight of the Old Repubblic e Jade Empire. Tra la fine degli anni ’90 e tutti gli anni 2000, qualsiasi gioco uscisse dalle mani di questi grandi artigiani del videogioco era, se andava male, un ottimo gioco, il più delle volte invece un capolavoro.
L’acquisizione dello studio da parte di Electronic Arts nel 2007 iniziò a cambiare le cose e, seppur i primi anni sembrasse andare tutto bene, ben presto qualcosa iniziò a scricchiolare, già dall’uscita di Dragon Age 2, titolo fatto in soli 18 mesi e che, nonostante non fosse brutto, non era certo al livello degli standard qualitativi dei precedenti titoli di Bioware. Dopo l’acquisizione, in pochi anni tutti i fondatori della software house abbandonarono la nave e arrivarono altri insuccessi: il poco ispirato Mass Effect Andromeda e Anthem, uno sparatutto fantascientifico del 2019 che oggi ricordiamo per essere stato uno dei primi live service a venire chiuso prematuramente.
L’arrivo di Dragon Age: The Veilguard per molti era il banco di prova per capire se Bioware fosse ancora in grado di realizzare dei grandi rpg. La sua uscita ha però reso evidente come la compagnia del passato sia ormai morta e sepolta e quella di oggi sia solo un guscio vuoto con lo stesso nome. Il quarto capitolo di Dragon Age, infatti, sbaglia tutto quello che poteva sbagliare.
Una storia da dimenticare
La sola pronuncia del nome Bioware evoca ricordi indelebili per tanti videogiocatori, grazie alla maestria dello studio nel raccontare storie memorabili. Dragon Age Origins, il primo capitolo della saga uscito nel 2009, stupì per la sua enorme profondità, che comprendeva anche un prologo unico per ciascuna razza scelta dal giocatore. Inoltre, i personaggi reagivano diversamente in base alle origini del protagonista, arricchendo ulteriormente l’esperienza. A tutto ciò si aggiungevano molteplici esiti narrativi, modellati dalle scelte compiute, che rendevano ogni avventura unica e profondamente personale.
Questa incredibile varietà e attenzione al dettaglio non si ripeté nemmeno con il secondo capitolo e con il terzo, Dragon Age: Inquisition; questi, nonostante si potessero considerare comunque dei buoni giochi, non riuscirono mai a eguagliare la profondità del primo capitolo. The Veilguard, ora, non soltanto non si avvicina nemmeno al primo capitolo, per quanto riguarda la narrativa, ma è molto sottostante anche ai due titoli successivi.