Drive my car e l’importanza dell’intertestualità
Lettura stratificata di testi
Drive My Car (Doraibu mai kā) è un film giapponese diretto da Ryūsuke Hamaguchi che si ispira all’omonimo racconto di Haruki Murakami.
Drive My Car è stato presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, dove ha vinto il Prix du scénario e poi ha vinto il premio Oscar come miglior film internazionale.
Un film lento e intimo che non cattura lo spettatore appieno, non arriva al cuore, ma rimane chiuso nella sua poetica nichilista.
Con una regia onniscente viene descritto anche il silenzio che incombe sui protagonisti, un silenzio che parla d’amore e di sofferenza.
L’amore che si prova per una persona che non c’è più ma che rimane nel cuore per sempre, lasciando chi rimane in vita con un grande vuoto da colmare.
Yusuke è un attore e regista teatrale rimasto vedovo, il quale si ritrova a dover condividere il tempo la sua autista personale Misaki, una ragazza di 20 anni. Nonostante i timori iniziali, tra i due si crea una relazione molto speciale, perché uniti dalla perdita di affetti diversi ma importanti.
Il punto di forza del film è l’intertestualità costante: testi diversi si intrecciano e, pur non facendo parte dei dialoghi tra i protagonisti, vanno a costruire dei messaggi che il regista vuole trasmettere.
Ad esempio le sceneggiature che enuncia Oto (la moglie defunta di Yusuke), oppure il copione letto ad alta voce nelle prove teatrali, la scelta della città di Hiroshima, sono dei testi dentro al testo principale che fungono da contenuto supplementare ed esplicativo.
L’amore e il senso di colpa
Yusuke e Misaki sono legati profondamente dal senso di colpa di non essere riusciti a salvare il proprio caro. Per Yusuke si tratta della moglie, in quanto è tornato a abitazione in ritardo e ha trovato Oto esanime sul pavimento a causa di un’emorragia cerebrale. Mentre Misaki racconta di aver visto morire la madre, un donna violenta e bipolare, a causa di una frana e di non averla salvata appositamente.
Ci troviamo di fronte a due confessioni dolorose e rimuginate, che avvengono su una macchina e per questo sono avvolte da un’aura fluttuante.
I protagonisti accomunati da un lutto sono alla ricerca di una catarsi personale, che si risolve nella presa di coscienza dell’impotenza di fronte alla morte.
Drive my car è un film asciutto che spalma la sua storia su tre ore ben diluite, con un prologo lunghissimo e una regia distaccata, tipicamente orientale.
I temi sono profondi e analizzati con zelo, ma la freddezza che pervade i dialoghi tra i personaggi rende il film più apprezzabile dalla prospettiva filosofica piuttosto che dal punto di vista dei sentimenti.
Una narrazione che può arricchire ma non emozionare.
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di Veronica Cirigliano
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2022-04-16 21:00:00 ,