Torniamo indietro di tre anni e mezzo: è maggio del 2018, e nelle sale cinematografiche esce Dogman, di Matteo Garrone.
Un paio di settimane dopo invece, esce Rabbia Furiosa – Er Canaro, di Sergio Stivaletti.
Che cos’hanno in comune questi due film? Beh, nulla… a parte la trama.
Entrambi i film prendono infatti spunto da una vicenda di cronaca avvenuta nel quartiere Magliana di Roma verso la fine degli anni ‘80, il famigerato delitto der Canaro, la romanzano e la adattano per il cinema, ottenendo però due risultati radicalmente diversi:
se il film di Garrone è più intimista e introspettivo, scegliendo di concentrarsi sui risvolti psicologici della vicenda, quello di Stivaletti è un vero e proprio spettacolo splatter fatto per chi si aspettava di vedere i più crudi e truculenti dettagli del fatto di cronaca prendere vita su schermo (e tra l’altro se siete fan di Romanzo Criminale per voi questi due film saranno oro visto che in uno c’è Edoardo Pesce e nell’altro c’è Riccardo De Filippis).
Ma che cosa c’entra tutto questo con Dune di Denis Villeneuve?
Assolutamente nulla, mi serviva semplicemente un esempio pratico per ribadirvi come la stessa storia possa essere narrata in mille modi diversi.
Già, perché sarebbe molto facile per chi vi scrive attaccarvi un pistolotto di trenta pagine sul romanzo di Frank Herbert dal quale il film è tratto, sul contributo che questo ha dato al mondo della fantascienza, sui tentativi di dargli una trasposizione cinematografica degna di questo nome (magari copincollando tutto da Wikipedia), e poi magari fare una recensione.
Ma no.
Non prendete questo articolo come una dissertazione di un esperto sull’opera di Herbert, perché chi vi scrive, semplicemente un esperto non lo è.
Anzi, visto che una trasposizione cinematografica di un prodotto deve essere in grado di parlare a chi quel prodotto lo conosce più della sua stessa mamma, così come a coloro che vi si approcciano per la prima volta, non prendetelo neanche come una recensione. Prendetelo più come una lettera aperta di uno spettatore medio ad altri spettatori medi. Le parole di un tizio qualunque che ha visto sia il film di Lynch che quello di Villeneuve, e che forse neanche li ha capiti fino in fondo, ma che vuole comunque fare una chiacchierata su quanti modi diversi possono esserci per fare del cinema.
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…
Ma di cosa parla Dune?
La trama ruota intorno alla rivalità tra due abitazionete, i nobili Atreides e i malvagi Harkonnen, e al loro scontro per il dominio di Arrakis, detto anche Dune per via del suo territorio desertico.
Arrakis è l’unico luogo in tutto l’universo in cui è possibile trovare il Melange, o Spezia, una sostanza vitale per il viaggio nello spazio: in altre parole, chi controlla Arrakis controlla l’universo.
Questo conflitto farà però da sfondo alla vicenda del vero protagonista, Paul Atreides (Timothée Chalamet), figlio del duca Leto Atreides (Oscar Isaac) e della sua concubina Lady Jessica (Rebecca Ferguson), a sua volta facente parte delle Bene Gesserit, misteriosa sorellanza che da secoli manipola linee genetiche per portare alla nascita del “Kwisatz Haderach”, un eletto destinato a cambiare le sorti dell’universo.
Probabilmente siete già confusi, e visto che un pochino lo sono anch’io, in questa chiacchierata ci concentreremo poco su trama e personaggi, sostanzialmente analoghi a quelli del film dell’84, col quale condivide persino determinate linee di dialogo e sceneggiatura: ciò su cui mi preme concentrarmi sono le differenze che intercorrono tra le due pellicole, le quali stanno tutte nel modo in cui tali vicende vengono mostrate e raccontate.
L’unica cosa che i due film hanno in comune da questo punto di vista è una forte presenza di scene oniriche che rendono il tutto fortemente introspettivo e (passatemi il termine) “allucinato”, ma laddove il film di Lynch presenta un’atmosfera maggiormente sognante e trascendentale, un’estetica che oscillava tra lo sfarzoso e il cyberpunk e un largo uso delle voci-pensiero per entrare nella mente dei suoi personaggi, il film di Villeneuve è sobrio e spartano nelle atmosfere, nelle ambientazioni e nei costumi, solenne e inquietante (soprattutto nelle scene con gli Harkonnen, interpretati da Stellan Skarsgard, Dave Bautista e David Dastmalchian in maniera tanto convincente e intimidatoria da far dimenticare le loro performance nei film della Marvel), ma soprattutto, è di poche parole, poiché racconta prevalentemente per immagini: non c’è bisogno di molti dialoghi, la storia è scritta quasi tutta sui volti degli attori, basta guardarli per capire cosa stanno pensando e in che direzione andrà la storia (anche se, c’è da dirlo, se avete visto il film di Lynch sarà molto più facile seguire il tutto).
Insomma, promossa a pieni voti la regia particolarmente ispirata, in perenne equilibrio tra la maestosità di uno Zack Snyder e la cupezza di un Christopher Nolan (e infatti Warner Bros. figura tra i produttori), e allora quali sono gli elementi meno riusciti?
Ci sono volti e volti
Per quanto faccia male dirlo, l’elemento più zoppicante del film è proprio la sua colonna portante, il protagonista Timothée Chalamet.
Chi vi scrive non crede tanto che sia il giovane divo di Chiamami col tuo nome ad essere una star ancora acerba e all’inizio del suo percorso, quanto che sia proprio Paul Atreides di per sé ad essere un personaggio algido ed apatico (e d’altronde anche la versione interpretata da Kyle MacLachlan si lasciava andare ben poche volte all’emozione), ma, voglio dire, già il film non è leggerissimo di suo, già metà del minutaggio è composta da scene oniriche, già la maggior parte di quell’altra metà è dedicata quasi esclusivamente ad un unico personaggio, se ci aggiungiamo pure che il personaggio in questione tiene la stessa espressione facciale per quasi tutto il tempo capirete che quelle due ore e mezza a un certo punto cominciano a farsi sentire.
E no, non è una battuta.
Paul Atreides può subire i più biechi tradimenti, perdere amici e parenti, ritrovarsi improvvisamente al centro di un intrigo smisuratamente più grande di lui, ma sul viso di Timothée Chalamet campeggerà sempre quell’espressione che sembra dire “ieri ho fatto serata e sono andato a dormire alle tre di notte ma stamattina mi sono alzato alle cinque per andare a lavoro”, tant’è che in quei pochi momenti in cui la sceneggiatura ha permesso a Chalamet di lasciarsi andare ad una bella scarica emotiva in sala siamo sobbalzati un po’ tutti.
Ma per il resto del film, tutti, e dico proprio tutti gli attori del cast, da Jason Momoa a Josh Brolin, passando per l’ormai amatissima Zendaya rubano ampiamente la scena al nostro protagonista.
Insomma, tirare le somme su Dune di Denis Villeneuve non è per niente facile, e il motivo principale è perché semplicemente questo film… Non è per tutti.
Non andatelo a vedere attendendovi un semplice film di fantascienza, e soprattutto non andatelo a vedere se vi aspettate un film d’intrattenimento sulla falsariga di Star Wars, perché non potreste essere più fuori strada.
Anzi, a dire il vero non saprei dire neppure a quale pubblico suggerire questo film, per cui mi limiterò a suggerirvi di guardarlo se cercate un colossal dalla forte impronta autoriale, se cercate qualcosa di (molto) diverso dal solito blockbuster, ma soprattutto, se volete guardarlo, guardatelo al cinema, perché guardarlo direttamente in home video o in streaming semplicemente non avrebbe senso, perché visto a abitazione non avrebbe la stessa potenza sia visiva che sonora che avrebbe in sala, e perché lo stesso Denis Villeneuve ha fortemente insistito perché il film venisse proiettato nelle sale affinché il pubblico potesse godere fino in fondo del suo lavoro.
E se questo non è amore per il cinema francamente non saprei come chiamarlo.
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di Ivan Guidi
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2021-09-17 08:21:48 ,