di Gabriele Niola
Per la prima volta una storia autobiografica, prima volta con Netflix, per la seconda volta a Venezia, come sempre con Toni Servillo
Il futuro è una nube da diradare a fatica lungo gli anni dell’adolescenza, che poi sono quelli di questo film, dall’estate del 1984 (quella dell’arrivo di Maradona a Napoli, una voce che si rincorre nella città tra increduli, speranzosi e dubbi avvistamenti) e quella del 1987 (con la conquista del primo scudetto). Non è un mistero che il protagonista di È stata la mano di Dio si chiama Fabietto ma in realtà è Paolo Sorrentino stesso, 15enne all’inizio del film, in piena tempesta ormonale, privo di grandi amicizie e privo di una ragazza, completamente perso per il corpo di una zia mozzafiato (Luisa Ranieri) e incapace di capire cosa fare di sé.
Nonostante sia un film autobiografico, questo di Sorrentino non è mai egocentrico, del personaggio raccontato non importa molto il mondo interiore, né di certo vengono esaltate le doti o la personalità (anzi). Importa quello che lo accomuna a tanti altri, l’attraversamento di un momento di profonda confusione, l’impenetrabilità del futuro, i timori del presente, l’esaltazione per poche cose. Tutta materia difficilissima da rendere, ma in questo film pieno di eventi, personaggi, situazioni (anche troppo) trova la sua strada attraverso i consueti grandi colpi di Sorrentino. È stata la mano di Dio ha infatti tutti i problemi e tutti i pregi dei film del suo autore, è affossato da diverse cadute di stile ma poi anche improvvisamente esaltato da trovate di cinema immenso che compaiono come gemme in una miniera.
Una vera e propria trama non c’è (e non è una novità per i film di Sorrentino) vediamo segmenti di una vita nel suo svolgersi. Una vita dominata dal sesso e dalle questioni di sesso. Non solo il protagonista e il suo desiderio di donne (e di amore) ma anche il padre che scopriamo essere stato infedele e avere avuto un altro figlio da un’altra donna, lo zio con la sua gelosia e la zia con un corpo che le dà solo problemi. Tutto in forma di commedia almeno fino a metà, poi accade qualcosa che cambia la vita del protagonista e il genere del film. Da commedia diventa drammatico, per tutti, per il protagonista e per chi gli è vicino.
È una scelta molto strana per un film italiano quella di separare commedia e dramma, solitamente trionfiamo nella fusione dei due, ma il problema del film non è questo, è più il fatto che a parte la relazione tra la madre e il padre, gli altri rapporti non sono mai tracciati. Questo ragazzo ha molte persone intorno ma non capiamo mai bene cosa senta per loro (anche per il fratello o per la sorella, sempre chiusa in bagno). È solo, anche se gli affetti li ha, il che è una bella idea ma di nuovo lo capiamo a fatica. Poteva molto facilmente essere sfacciato e sbattere i temi adolescenziali in faccia allo spettatore, invece sceglie sempre di essere sottile, di parlare di Napoli, di sesso, di case in montagna e scherzi ai vicini per parlare dell’isolamento adolescenziale e della sete di un domani imperscrutabile. Solo a tratti però la scelta paga.
A non tradirlo invece è il lavoro sui corpi, che da sempre è quello in cui riesce meglio. Sorrentino ama Fellini ma non deforma la realtà come lui, semmai ne enfatizza i dettagli, li ingrandisce, come quando fa notare a tutti che Luisa Ranieri non indossa un reggiseno nella primissima scena (lei è il corpo del desiderio, non è inquadrata ma è proprio disegnata). E alla stessa maniera sono curatissimi i comprimari più grotteschi e il padre, ovvero Toni Servillo (c’è un che di freudiano nel fatto che Sorrentino abbia scelto l’attore a cui più è legato per interpretare suo padre…). Se c’è una cosa che sappiamo di Servillo è che è bravo e che spesso si mangia i film cioè spesso prende il proscenio, detta regole e tempi e si impone non facendo giocare nessun altro a discapito del film stesso. Invece con Sorrentino (e quindi anche qui) è diverso. In È stata la mano di Dio non ha bisogno di imporsi per imporsi, cioè non ha bisogno di conquistare sempre l’attenzione ma lavora di fino con espressioni, momenti e alle volte anche solo una risata, come quando in una corsa in tre in motorino guardiamo solo lui, divertito e spaventato.
Alla fine in questa adolescenza con il cinema come lontana aspirazione, le donne come miraggio, Maradona come sogno e la morte che incombe, non c’è la roboante magnificenza degli altri film che rendono Sorrentino un cineasta divisivo, che impone l’odio o l’amore nei suoi confronti. Questo è un film più quieto e intimo che ovviamente può non piacere ma che non ha quel sano e meraviglioso sfacciato desiderio di essere grande e importante. Sembra strano a dirlo ma nonostante sia un film costoso (di Netflix) e molto imponente, è anche defilato, non urlato, con pochissima musica. È un Sorrentino diverso, non irriconoscibile ma più senile e in un certo senso intimo.
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2021-09-02 17:20:14