Com’è possibile spegnersi così, senza nessun problema economico, professionale o sentimentale? Giorgio Perinetti non si dà pace. Ha perso sua figlia, Emanuela. Che aveva 34 anni, era una manager dello sport e, apparentemente, aveva tutto. Apparentemente, appunto. Visto che soffriva di anoressia e, quando si scivola nella spirale infernale dei Dca, non c’è ragione che tenga, non c’è motivo razionale, non ci sono spiegazioni né giustificazioni né colpe né vergogne. Non c’è niente di niente cui appigliarsi: non serve invocare la crisi dei valori o il trionfo della perfezione, l’oggettività della riuscita o la forza di volontà.
C’è un mostro dentro che divora e che obbliga ad affamarsi – se mangi ti anniento! urla il mostro, sebbene sia lui ad annientare; la fame non perdona, la fame consuma, la fame uccide. Chi soffre di anoressia muore di fame, sì, anche se il cibo è lì, a disposizione, basterebbe aprire la bocca e inghiottire, ma come si fa a buttare giù quella roba se dentro c’è una voce che intima di non farlo: dai, forza, resisti, ce la puoi fare, ancora uno sforzo, l’ultimo, domani, forse! anche se domani è di nuovo la stessa identica storia.
Non. Puoi. Anzi, peggio: non devi. Ma perché non devo? Si chiede chi precipita nell’abisso dell’anoressia. Peccato che le risposte tardino e che, pure quando arrivano, siano parziali, bucate, fallaci, approssimative. Poi, per carità, ci sono mille strade che si possono seguire per guarire, come si dice oggi, sebbene non sia affatto chiaro cosa significhi guarire. Quand’è che si guarisce? quando si riprende peso? quando papà e mamma smettono di soffrire per causa nostra? quando si riesce a ricominciare a studiare o lavorare? quando ci si fidanza o ci sposa? quando si diventa madri?
Per carità, c’è la psicoterapia, c’è la psicanalisi, ci sono gli approcci integrati, cura del corpo e cura dell’anima, ci sono i gruppi di auto-mutuo-aiuto, ci sono i percorsi spirituali, e chi più ne ha più ne metta, ma si guarisce davvero? Una volta per tutte? Per sempre? E non venitemi a dire che sono disfattista, che tolgo la speranza, che non so, non conosco, non ho il diritto di scrivere o dire certe cose. Perché sono anni che, con quel mostro, ci convivo.
Sì, per carità, ho scritto che ne sono uscita, che dopo vent’anni di psicanalisi l’anoressia l’ho sconfitta, ed è pure vero. Ma. Chi ne esce davvero del tutto, completamente, perfettamente? Chi smette di fare i conti con le calorie? Il cibo resta comunque una dannazione o una ricompensa, un pericolo o un regalo: quanto hai prodotto oggi? te lo sei guadagnato il pane quotidiano? te lo meriti?
Certo, sono viva, ho cinquantatré anni, non sono più stata ricoverata, ho un lavoro bello, scrivo, faccio conferenze, salgo in cattedra o su un palcoscenico e mi diverto pure, e divento rossa quando mi dicono: brava. Ma sono davvero brava oppure? Lui, il mostro, resta dentro. E talvolta rimette in discussione tutto, persino il senso della mia esistenza.
Valgo? Sono importante? Merito di vivere? Il mostro, oggi, ha una voce più flebile, talvolta tace, ma altre volte torna all’attacco, e allora è tutto un gioco di compromessi: dai, lasciami stare! dai, zitto! dai, in fondo, anch’io ho diritto di riposarmi, coccolarmi, lasciarmi andare, perdere tempo. Ma. Sfido chiunque abbia sofferto di anoressia a dirmi che quel mostro non l’ha mai più sentito, sfido chiunque a dirmi che non si è più sentito in colpa per aver detto (o non detto) e fatto (o non fatto) qualcosa – anche se con il cibo le cose vanno bene, mi giuri che hai smesso di controllare il resto: la pulizia della casa, i conti, il numero di passi, le vasche in piscina, gli articoli che scrivi, le mail cui rispondi, le parole, i pensieri, le opere o le omissioni?
Vorrei consolare papà Giorgio, ma faccio fatica. È come se avessi di fronte mio padre che, in fondo, non l’ha mai capito come fosse possibile che la sua bambina, che aveva tutto, avesse tutto tranne la gioia di vivere. Dall’esterno non si capisce. E anche dall’interno, ve l’assicuro, non è facile. Perché razionalmente quel tutto c’è. Ma il mostro pretende il contrario. E quella bambina indifesa e triste che sono stata, talvolta cede ancora al mostro e crede a lui, piuttosto che all’oggettività delle cose e a sé stessa, nonostante abbia pian piano (e faticosamente) imparato ad ascoltarmi.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-12-02 00:25:00 ,www.repubblica.it