Senza colpi di scena finali, senza quel gioco di intrecci e accordi che plasticamente animano la serata finale del Palio della nostra letteratura, Emanuele Trevi, autore di “Due vite”, va dritto alla vittoria del Premio Strega con 187 voti. E trascina con sé Rocco Carbone e Pia Pera, gli amici scrittori prematuramente scomparsi ai quali è dedicato il suo memoir. La casa editrice Neri Pozza, col direttore Giuseppe Russo e l’editor Roberto Cotroneo, che mandano definitivamente in frantumi il predominio dei grandi gruppi editoriali, a partire da quello di Segrate. E lo spirito di quest’anno del Ninfeo di Villa Giulia, storica sede del Premio: decisamente meno sanguinario degli anni scorsi.
La delusione si era consumata a Benevento, con la clamorosa esclusione di Teresa Ciabatti e di Mondadori. Nel rush finale Donatella Di Pietrantonio (“Borgo Sud”, Einaudi, seconda sul podio con 135 voti), Edith Bruck (“Il pane perduto”, La nave di Teseo, 123 voti e il Premio Strega Giovani), Giulia Caminito (“L’acqua del lago non è mai dolce”, Bompiani, 78 voti) e Andrea Bajani (“Il libro delle case”, Feltrinelli, 66 voti) avvolgono il vincitore e il coro è unanime: va bene così.
“Due vite” è il racconto di un’amicizia tra tre scrittori: tu, Pia Pera e Rocco Carbone. Cosa vuol dire dal punto di vista narrativo affrontare un tema come l’amicizia?
“È un fatto molto complesso. Non a caso esistono tantissimi romanzi d’amore e pochissimi d’amicizia. Perché nell’amicizia non succede niente: non c’è, come nell’amore, un inizio, un apice, una crisi risolutiva. L’amicizia corrisponde un po’ alla fine delle favole: e vissero tutti felici e contenti. Questo perché in un rapporto di amicizia c’è una dose di gratuito che non esiste affatto nell’amore, tantomeno nei rapporti sociali e in ciò che crea una società. Gli amici sono, per definizione, coloro con i quali perdi tempo: quei tre numeri nella rubrica del telefonino – che può contenerne migliaia – che formuli solo per sapere: cosa fai, dove sei? Cioè, la telefonata inutile. Che poi è la vera realtà: perché l’unica cosa davvero gratificante nella vita è avere degli amici”.
E tutto ciò come si trascrive nella scrittura?
“È un problema che mi sono posto spesso, dal momento che io scrivo sostanzialmente solo d’amicizia: l’unica storia d’amore che ho scritto è un racconto un po’ comico su mia nonna, che si è innamorata a 90 anni. È necessario trovare delle situazioni significative, nelle quali fai identificare il lettore. Perché nell’amicizia, ripeto, non succede assolutamente niente. Nel mio libro accade che queste due persone, per due disgrazie, muoiano, non siano più con me. Però è un elemento esterno all’amicizia”.
Conosciamo il mondo attraverso le relazioni con gli altri. Cosa ti ha insegnato della vita l’amicizia con Rocco e Pia?
“Sono stati i miei amici attorno ai 20 anni, quando non eravamo niente. Poi tutti e tre, in fondo, ce la siamo cavata, abbiamo avuto le nostre gratificazioni. Ma intorno ai 20 anni, la scrittura è una disperazione. A differenza di un calciatore, di una ballerina, di un flautista che sanno quanto valgono, lo scrittore ha un apprendistato molto lento, come diceva Thomas Pynchon nei suoi racconti giovanili, “Slow Learner”. Condividere il fatto che il futuro è un buio con persone come Rocco e Pia per me è stato fondamentale. Pia mi ha insegnato che qualunque cosa succeda, tu per due ore al giorno devi fare quello che hai scelto di fare. E questa è stata una cosa pazzesca, perché mi fatto svincolare il lavoro dall’umore. Andavamo magari a sciare, o fuori Roma a una festa di amici, e lei all’improvviso si isolava e diceva: “Devo leggere”, e si chiudeva in camera. Rocco, ancor di più, era proprio uno spaccapietre: si dava l’obbligo delle due pagine al giorno. E io, che ho una tendenza molto imitativa, ho seguito questa loro energia e ambizione. Ho avuto il loro esempio”.
Così facendo, Pia ti ha insegnato in fondo a padroneggiare il tempo. L’amicizia serve un po’ a beffarlo, il tempo. A invecchiare insieme e a non scorgere i segni dell’età sul viso, nei gesti, nei comportamenti. E se due amici non ci sono più?
“Purtroppo avrei molto voluto invecchiare con loro. Pia mi manca moltissimo, era proprio un sostegno della mia vita. A questo Premio Strega ho avuto la sensazione di concorrere con loro: da una parte con Rocco, che voleva vincere a tutti i costi, avrebbe contato i voti, lui che era un grande giocatore di biliardo, così competitivo che facevo talvolta persino finta di perdere, per non rovinarci le serate… E con Pia, che invece era una persona molto delicata e mi incoraggiava sempre: “Vabbè, Emanuele, se perdi non fa nulla, è estate, pensa a divertirti, magari a conoscere una ragazza”… Queste sono cose che mi mancano davvero. Quando gli amici vengono meno il mondo si restringe, ti manca la terra sotto i piedi”.
È un inno all’amicizia “Due vite”. Cosa possono trovare nel tuo libro i più giovani, avvolti da reti di relazioni profondamente diverse?
“Molte lettere. E gesti, azioni di una vita apparentemente sconnessa dalla tecnologia, che però molti giovani di oggi rimpiangono. Quelle uscite, stare sempre insieme, dividere case creava una specie di Internet corporeo. In più, sapevamo tutto. Non avevamo Internet né i social, però eravamo informatissimi”.
Di musica, per esempio?
“Certo. Al di là della letteratura, la mia grande passione è la musica. E non mi sembra di essere più informato oggi, con tutti gli strumenti a disposizione che ho, rispetto a quanto lo fossi da giovane. Si andava a Londra a comprare i dischi, ad ascoltare il punk, a scoprire le band: non c’era Amazon, eppure sapevamo tutto. Oggi ognuno di noi, se deve scrivere di un cantante, si orienta con Wikipedia, con YouTube. La vecchia generazione no, ma questo non vuol dire che non avesse una conoscenza pari a quella dei ragazzi di oggi. Questa è una cosa che colpisce molto i più giovani, che non riescono a immaginare come circolavano le informazioni e le emozioni. Il fatto è che oggi nemmeno io glielo so più spiegare: come faremmo tutti senza Google? La tecnologia crea una falsa necessità, si traveste da natura, e diventa incontestabile, come il mare che ha le onde”.
Parli della tua adolescenza. C’è stata in quegli anni una lettura più decisiva di altre?
“Negli anni della mia adolescenza un libro fondamentale, una specie di battesimo, è stato “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, che circolava moltissimo assieme a un altro libro, “Il grande Meaulnes” di Alain Fournier, oggi nella totale dimenticanza. “Il maestro e Margherita” è un racconto straordinario, con il diavolo che va nella Mosca stalinista creando uno scompiglio incredibile, ma è anche una storia su Gesù, una storia d’amore meravigliosa, un libro fantastico, spiritoso, avventuroso…mi ricorda Harry Potter! Non vorrei dissacrare Bulgakov, però ha qualcosa di vagamente simile”.
Ricordi com’è arrivato a te, chi te lo ha suggerito?
“Grazie alla scrittrice Francesca Melandri, che era mia compagna di scuola. A ricreazione parlava sempre di questo libro, diceva: “Se non hai letto “Il maestro e Margherita” ti sei perso una cosa grandissima”. E sono andato a vedere. L’amicizia ti allarga la mente, il cuore, la conoscenza. Ho avuto amici con i quali ho condiviso la strada, letteralmente: andavamo in autostop a Bruxelles a vedere il concerto di David Bowie, ed era una cosa normale per noi, perché c’erano modelli americani – Jack Kerouac, “Sulla strada”. Però Kerouac ci ha insegnato anche altro: che nella strada non tutto è eroico, anzi puoi stare ad aspettare un giorno intero col pollice alzato e poi, visto che non si ferma nessuno, devi tornartene a casa. Le cose, imparavamo, potevano anche andare storte. E c’era un magma di perdita di tempo…”
Quanto vale il tempo perso di quegli anni?
“Il tempo perso è il tuo angelo custode. Non è il tempo in cui entri nel meccanismo sociale, perché quello è il tempo dello studio e del lavoro. Non è il tempo in cui costruisci una famiglia attraverso un sentimento d’amore, che coinvolge altre energie. È il tuo tempo, quello in cui ragioni sulle cose. Io ho avuto un’educazione molto severa. Ma i grandi, in generale, non ci capivano. Mia madre mi chiedeva di continuo: “Ma che fate in giro, che vi dite?”. Però era una generazione completamente in rovina, ferita dalla strage di Ustica, da quella di Bologna, dall’assassinio di Aldo Moro. Un mondo in dissoluzione che, di fronte ai propri ideali in frantumi, ci lasciava fare. Erano tutti in dubbio, preoccupati semmai dall’eroina che in quegli anni faceva moltissimi morti. Di fronte a noi ragazzi, oltretutto senza alcuna spinta politica, erano molto più tolleranti, compresi gli insegnanti: “Magari avete ragione voi”, pensavano. Per una decina d’anni abbiamo fatto quello che volevamo”.