A distanza di oltre un secolo e mezzo dalla partenza della équipe artica di Sir John Franklin, un team di ricercatori canadesi ha identificato, grazie al dna e a prove genealogiche, i resti di uno dei membri dell’equipaggio – resti che recano anche indizi di cannibalismo. Appartengono al capitano James Fitzjames.
La équipe perduta
Era il 1845 quando Sir John Franklin guidò una équipe composta da 128 uomini della Royal Navy britannica per completare la navigazione del famoso passaggio a Nord-Ovest, la rotta che attraverso l’arcipelago artico canadese avrebbe connesso l’oceano Atlantico al Pacifico. Fu un disastro: nessuno dei membri della compagnia venne ritrovato vivo, ma dal 1848, quando partirono le prime ricerche, a oggi tanti indizi hanno consentito di ricostruire le sorti della sfortunata missione.
In particolare un rapporto del capitano James Fitzjames, recuperato nel 1859, riportava di come le navi Terror e Erebus fossero rimaste bloccate dal ghiacciato nello stretto di Vittoria e come i sopravvissuti avessero pronto di abbandonarle per cercare a piedi la salvezza.
I segni di cannibalismo
Resti umani ritrovati tra l’Isola di Re Guglielmo e la penisola di Adelaide e testimonianze d’epoca del popolo Inuit hanno poi fornito altri dettagli, alcuni anche molto crudi – segno della profonda disperazione di chi strenuamente era riuscito a resistere più a lungo al freddo, alle malattie e all’avvelenamento da piombo causato, forse, dal sistema di desalinizzazione dell’acqua di cui erano dotate le navi. Alcune ossa recuperate, infatti, recano tracce che per gli esperti possono essere ricondotte a pratiche di cannibalismo.
Identità recuperate
Ma possibile ridare un nome a questi resti?
Gli scienziati dell’Università di Waterloo ci hanno provato, riuscendo a risalire all’identità di una vittima cannibalizzata, ritrovata (almeno in parte) nel 1993 a circa 80 chilometri dal luogo in cui furono poi individuati i relitti delle navi: si tratta proprio dell’ufficiale James Fitzjames, comandante dell’Erebus.
L’identificazione – spiegano nell’articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Science – è avvenuta confrontando il profilo genetico del cromosoma Y estratto da un dente e quello ricavato da campioni di dna prelevati da un discendente della famiglia dello sfortunato capitano britannico.