Ma intorno a lui è cambiato tutto e non c’è droga che tenga. Come raccontava del cinema, attraverso il cinema, Michel Hazanavicius nel suo The Artist, dal muto al sonoro è un altro mondo, con le sue regole e le sue porte d’entrata. E Pat Hobby è anche lui un uomo fuori tempo, fuori contesto e molto spesso fuori luogo, quindi irresistibile, al perenne inseguimento di questo o quel produttore, di un’entrata secondaria negli studios, di una speranza. «Ma come fai a farti venire un’idea senza uno stipendio», dice a un certo punto il nostro sceneggiatore, all’inizio di una delle sue (dis)avventure. Che potrebbe tranquillamente essere la fine, in una circolarità di peripezie, espedienti, stratagemmi per forzare il destino che non lo vuole più in quel posto: Hollywood, le luci, il successo e, in fondo, il riconoscimento. Il suo passato, che elementarmente e fortemente rivuole, pur cosciente delle regole del gioco. Un gioco divertente e triste come queste pagine, in cui il vecchio showbiz dei divi (qui il futuro, per noi già il passato, come risultato la medesima sensazione di estraneità, anche un po’ di repulsione) è un paradigma della vita elevato a una potenza alla quale non si sta dietro. Non riesce a starci persino chi possedeva il regolamento, i trucchi del mestiere, le capacità di stare al passo. Ma ora non più: nella Mecca del cinema qualcuno ha determinato di staccare l’interruttore. Anzi, di convertirlo: lo spettacolo deve andare avanti, chi c’è c’è, e quasi sempre non è chi c’era.
Pat Hobby ci prova, a reinventarsi, come può, per i soldi per un altro goccio, per un’altra corsa all’ippodromo, per il sogno di un nuovo arrivo. Ruba idee per nuovi copioni, ruba commissioni di poche settimane, ruba persino il posto agli attori, tutto sempre con una buona dose di casualità e altrettanta di destrezza, tutto per un altro piccolo assaggio di quello che è stato e non potrà essere più. E tutto avviene in maniera esilarante, cattiva, miserabile e adorabile. È impossibile non amare Pat Hobby perché a oltre ottant’anni da quando questi racconti sono stati scritti, e a sessanta da quando sono usciti per la prima volta negli Stati Uniti, ci parla dandoci profondamente del tu, suona familiare a ogni nostro senso di inadeguatezza, di bisogno di legittimazione creativa e sociale. E ci restituisce l’idea rinnovata e sorprendente di un autore lontano dall’immagine patinata e dall’allure che aveva circoscritto quel mondo sofisticato e ineguagliabile, l’aura di Jay Gatsby e via discorrendo. Qui c’è solo l’attualissimo ritratto di un perdente nemmeno grandioso, perdente e basta, il sogno del grande schermo sfuggito dalle mani, le sue vicissitudini slapstick in cui mica c’è soverchiamente da ridere. Tanto, come lui sa migliore di tutti, «alle gag avrebbe pensato il regista».
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di Ezio Azzollini www.wired.it 2024-10-23 11:00:00 ,