Nella storia politica italiana le divisioni interne a un partito o a un movimento sono state un fenomeno più tradizionalmente associato alla sinistra, protagonista di scissioni frequenti fin dalla nascita del Partito Comunista, a lungo nota come “la scissione” per antonomasia. Ma dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica – come viene chiamato il periodo che precedette le inchieste di “Tangentopoli” e la trasformazione dei partiti maggiori nella prima metà degli anni Novanta – ci sono state separazioni di un certo rilievo anche al centro e a destra: l’ultimo in ordine di tempo è quello dell’attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che martedì sera ha annunciato l’uscita dal Movimento 5 Stelle e la formazione di un nuovo gruppo parlamentare chiamato “Insieme per il futuro”.
Già nelle scorse settimane Di Maio aveva assunto un profilo più moderato rispetto alle posizioni del leader del M5S, Giuseppe Conte e alle pur recenti tradizioni contestatrici del suo partito, e nella conferenza stampa in cui ha annunciato la decisione ha detto che c’è bisogno di condannare con più forza l’invasione russa in Ucraina e di mettere meno in discussione l’invio di armi da parte dell’Italia: e le prospettive del suo nuovo gruppo di parlamentari sembrano rivolte verso un’area politica – quella del centro moderato – che molti commentatori hanno descritto come già piuttosto affollata e disordinata, aggiungendo che in passato operazioni simili di emancipazione da partiti maggiori hanno avuto risultati perlopiù fallimentari.
Storicamente la fama di area politica litigiosa è appartenuta alla sinistra. Ancora nel 1998 all’interno di Rifondazione Comunista, un partito che a sua volta era nato da una scissione durante l’ultimo congresso del Partito Comunista, avvenne uno scontro tra il segretario Fausto Bertinotti e il presidente Armando Cossutta a proposito dell’operato del governo allora in carica, guidato da Romano Prodi. In particolare, Bertinotti criticava la legge finanziaria e il trattamento degli operai metalmeccanici. Nel 1997 ci fu una prima crisi di governo, e poi un’altra l’anno successivo: di nuovo dopo che il governo aveva presentato la legge finanziaria, Cossutta e Bertinotti si scontrarono. Stavolta il governo cadde per un solo voto, e subito dopo Cossutta e il capogruppo alla Camera, Oliviero Diliberto, uscirono da Rifondazione e fondarono il Partito dei Comunisti Italiani.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, il Partito dei Comunisti Italiani non ottenne mai più del 2-3 % dei voti alle elezioni europee e nazionali, mentre dal 2008 in poi non riuscì a eleggere nessuno in Parlamento. Nel 2016 poi confluì nel ricostituito Partito Comunista Italiano.
Nove anni dopo la scissione di Rifondazione, ce ne fu un’altra al congresso dei Democratici di Sinistra (DS) in cui sarebbe nato l’odierno Partito Democratico: Partito Democratico che aggregò la maggior parte dei DS a loro volta recenti eredi del Partito Comunista (il più grande partito di sinistra europeo in trasformazione dopo la fine delle ideologie comuniste con la caduta del Muro di Berlino) e la quota meno conservatrice della Democrazia Cristiana che aveva formato il partito della Margherita. La sinistra dei DS, però, guidata da Fabio Mussi e Gavino Angius, decise di abbandonare il partito perché dal loro punto di vista l’inclusione della Margherita nella formazione del PD avrebbe spostato eccessivamente verso il centro le posizioni del partito.
Mussi e Angius fondarono quindi Sinistra Democratica, e subito dopo la scissione cercarono di organizzare una grande formazione di sinistra con Rifondazione, i Comunisti Italiani e i Verdi. Il risultato fu la lista Sinistra Arcobaleno, che alle politiche del 2008 andò malissimo, ottenendo poco più del 3 % e non riuscendo a entrare in Parlamento. Due anni dopo venne deciso lo scioglimento del partito dentro Sinistra Ecologia Libertà, guidata da Nichi Vendola (e nel frattempo a sua volta confluita dentro Sinistra Italiana).
Fu solo la prima di una lunga serie di scissioni avvenute nel PD, nessuna delle quali ha poi avuto grande fortuna. Nel 2009 l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli decise di uscire dal partito accusando gli allora dirigenti di essere schierati troppo a sinistra e di non aver rispettato la componente centrista che aveva contribuito a fondare il partito. Rutelli fondò Alleanza per l’Italia (API), uno dei tanti partiti di quel periodo che oggi non ricorda più nessuno e tra i cui dirigenti c’era anche Bruno Tabacci, oggi in Parlamento eletto con +Europa. API partecipò ad alcune elezioni locali con scarso successo, tanto che nel 2013 Rutelli decise di non presentarsi alle elezioni nazionali.
Negli anni successivi se ne andarono anche altri pezzi del PD. Nel 2015 fu la volta di Pippo Civati, in polemica con l’allora segretario Matteo Renzi e con la sua linea, in particolare a proposito della riforma del Jobs Act e della legge elettorale Italicum. Nella scorsa legislatura Possibile aveva 5 deputati in Parlamento, mentre nel 2018 ne ha eletto soltanto uno (ma il movimento esiste tuttora).
A quelle elezioni Possibile si presentò insieme a Sinistra Italiana e Articolo 1 – MDP, due partiti a loro volta nati da fuoriusciti del PD: il secondo in particolare con un discreto rumore sui media, essendo stata la scissione guidata – sempre in polemica con Matteo Renzi – da due ex leader importanti come Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Insieme crearono una specie di cartello elettorale chiamato Liberi e Uguali, che però ottenne un risultato al di sotto delle aspettative, riuscendo a eleggere soltanto 18 parlamentari. A novembre del 2018 poi Liberi e Uguali si sciolse con la fuoriuscita di Articolo 1 – MDP, che da allora è riuscito comunque a mantenere una limitata rilevanza principalmente grazie al suo segretario Roberto Speranza, attuale ministro della Salute.
A conferma delle convulse e alternative instabilità dentro il PD, a uscirne è stato poi lo stesso Matteo Renzi, che ha fondato il proprio partito, Italia Viva, poco più di un anno dopo le sue dimissioni da segretario del PD seguite all’esito insufficiente delle elezioni del 2018. Era una decisione evocata da tempo, ma è difficile sostenere che abbia portato qualche vantaggio politico a Renzi. Se da un lato è riuscito a mantenere una grossa influenza nelle vicende politiche risultando determinante nella caduta del secondo governo di Giuseppe Conte e nella formazione del governo di Mario Draghi, i sondaggi non hanno mai dato a Italia Viva più del 2-3 % di consensi, e nelle recenti elezioni amministrative si è presentato solo in poche città con risultati non entusiasmanti, senza creare un progetto comune con gli altri partiti di centro.
Un discorso analogo è forse più prematuro ma in parte si può fare per Azione, il partito di Carlo Calenda, anche lui uscito dal PD nel 2019. Calenda ha dimostrato di poter contare su un notevole consenso personale, ottenendo quasi il 20% alle comunali di Roma del 2021, più della sindaca uscente Virginia Raggi. Ma gli altri candidati di Azione, a conferma della natura personalistica che era stata fin da subito attribuita al partito, sono andati molto male alle elezioni locali a cui si sono presentati. All’inizio di quest’anno si è federato insieme a +Europa, e non ha ancora avuto l’occasione di presentarsi alle elezioni politiche dove però sarà probabilmente obbligato ad alleanze che gli diano maggiori opportunità.
Nonostante il primato della sinistra nel campo delle scissioni, alcune di quelle più ricordate dello scorso decennio riguardano però il centrodestra, e in particolare Forza Italia.
La prima fu quella del 2010, quando l’allora presidente della Camera, Gianfranco Fini, si scontrò con l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e uscì dal Popolo della Libertà, il nome che aveva preso il partito in cui si erano uniti la prima Forza Italia e Alleanza Nazionale, che era erede del tradizionale partito della destra italiana, il Movimento Sociale (nei successivi passaggi erano intanto usciti piccoli gruppi di parlamentari di varie notorietà). Il momento di rottura più plateale, rimasto celebre, fu quando durante un evento di coalizione Fini – che era il maggior leader della destra parlamentare – rispose a un attacco di Berlusconi gridandogli dalla platea «Che fai, mi cacci?». Il gruppo parlamentare che nacque dalla scissione si chiamò Futuro e Libertà per l’Italia (FLI) e contava su una trentina tra deputati e senatori, quasi tutti fuoriusciti dal Popolo della Libertà. FLI aveva un orientamento liberale e laico e durante il resto della legislatura cercò di formare un polo di centro con altri gruppi centristi. Alle elezioni 2013 il partito appoggiò Scelta Civica – il partito anch’esso di breve durata creato dall’ex presidente del Consiglio Mario Monti – ottenne appena lo 0,47 % dei voti e nel maggio dell’anno successivo si sciolse nel disinteresse generale.
Un’altra scissione rilevante per il centrodestra fu quella di Angelino Alfano, più volte ministro, già segretario del Popolo della Libertà e a lungo considerato potenziale erede di Berlusconi. Nel 2013 però anche Alfano decise di uscire dal Popolo della Libertà, fondando il Nuovo Centro Destra (NCD). In quel caso il motivo di scontro fu l’appoggio al governo allora in carica, quello delle cosiddette “larghe intese” guidato da Enrico Letta, e la decisione di Berlusconi di sciogliere il Popolo della Libertà per ricostituire Forza Italia. NCD appoggiò anche il successivo governo Renzi, poi nel 2017 si sciolse in una nuova formazione chiamata Alternativa Popolare. Alle elezioni del 2018 si presentò in una lista insieme ad altri piccoli partiti, Civica Popolare: prese meno dell’uno %. Dopo le elezioni, Alfano lasciò la politica.
Poi non è certo corretto giudicare le scelte di scissione solo sulla base dei risultati di consenso ed elettorali: spesso a calcoli più o meno improvvisati di questo genere si associano sincere ragioni di dissensi che gli scissionisti non ritengono possano convivere o trovare compromessi all’interno di un partito con “anime” diverse. E in alcuni casi – quello di Renzi, per esempio: ma forse anche di Di Maio – può darsi che gli spazi all’interno del partito originale sarebbero stati più ridotti ancora di quelli ottenuti fuori. Ma considerato anche il contesto legislativo che incentiva attraverso le sue forme di maggioritario la creazione di aggregazioni maggiori, separarsi in partiti più piccoli non sembra aiutare i destini né dei separati né del quadro politico, e della sua stabilità e funzionamento in genere.
Leggi la notizia su: Politica – Il Post
LEGGI TUTTO
, 2022-06-23 14:22:07 ,
Il post dal titolo: Fare una scissione conviene? – Il Post scitto da il 2022-06-23 14:22:07 , è apparso sul quotidiano online Politica – Il Post dove ogni giorno puoi trovare le ultime notizie dell’area geografica relativa a Politica