VIGONOVO (Venezia) – L’incontro dura poco meno di un’ora in una sala riservata ai colloqui tra parenti e detenuti all’interno del carcere Montorio di Verona. Ci sono quindici tavolini rotondi e numerose sedie perché qui dentro, normalmente, si incontrano anche quaranta persone tutte insieme. Ora sono soltanto loro tre: Filippo Turetta, in cella per il femminicidio di Giulia Cecchettin, suo papà Nicola e sua mamma Elisabetta Martini. Si vedono, si abbracciano, piangono. Quando il tempo finisce, i genitori escono in lacrime. Il padre si rivolge alle guardie: “Grazie per prendervi cura di nostro figlio”.
Non si vedevano dall’11 novembre, il giorno della morte di Giulia. Filippo era uscito di casa, poco dopo le 20 aveva mandato un messaggio alla mamma: “Ceno fuori”. Tre ore dopo stava uccidendo la sua ex fidanzata con una “ferocia inaudita”, una “manifesta disumanità”, per usare le parole della gip Benedetta Vitolo. Per poi iniziare la sua lunga fuga che lo ha portato fino in Germania, dov’è stato arrestato.
A mezzogiorno il grande cancello del carcere si apre. I genitori di Filippo entrano in macchina. Non hanno borsoni, al figlio hanno già fatto avere vestiti e scarpe nei giorni scorsi. Vengono perquisiti, come da regolamento, lasciano i cellulari agli agenti di guardia. Chi li accoglie li descrive “impietriti”, spaventati, attoniti. Chi conosce le dinamiche di un istituto penitenziario dà loro un consiglio: “Abbracciatelo, è traumatizzato dall’idea che lo abbiate abbandonato”. E usa una parola di conforto anche per loro: “Fatevi forza”. Nicola e Elisabetta annuiscono: sì, dobbiamo farci forza. Poi una raccomandazione: meglio non parlare delle notizie che là fuori si susseguono senza sosta. Lui la tv non può nemmeno guardarla. Chissà se è a conoscenza dei funerali di Giulia previsti per martedì.
La sala colloqui si trova prima della zona detentiva, quella delle celle. Entrano i genitori, viene portato il ragazzo. Un lungo abbraccio, tante lacrime. Nessuno, se non loro tre, può sapere che parole si dicono in quel momento. Si sa però che sul tavolino che hanno scelto rimangono tanti fazzoletti di carta e che l’incontro a un certo punto si interrompe, un po’ perché il tempo è passato, un po’ perché il peso di questi minuti è sempre più difficile da sopportare. Turetta è consapevole di quello che ha fatto, dei reati per cui è accusato: davanti al pm ha parlato nove ore, ha confessato di aver tolto la vita all’ex fidanzata che credeva “sua”, perché non riusciva ad “accettare” la fine della relazione, pur insistendo nel dire che non sa cosa gli sia scattato quella sera.
“Grazie per prendervi cura di nostro figlio”, dice alla fine Nicola Turetta alle guardie. Era stato Filippo, appena varcato l’ingresso di questo carcere, a chiedere di loro. È servito tempo, per tanti motivi. Ora il detenuto di 22 anni torna nella sua cella, nel reparto infermeria: per ora non è stato trasferito perché lì, sotto regime di “grande sorveglianza”, guardato sempre dagli agenti della Penitenziaria e affiancato da un compagno di detenzione, pare abbia raggiunto un equilibrio. Un equilibrio che a Vigonovo, nella casa dove viveva Giulia, è ancora impossibile immaginare di ricostruire.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-12-03 19:00:00 ,www.repubblica.it