Prima è stato per anni uno sconosciuto. Nessuno, fuori dalla cinta daziaria di Roma e dei suoi ministeri, sapeva chi fosse. Anche se era uno degli uomini più influenti del Paese. Perché, dai suoi uffici, passavano tantissimi soldi pubblici e soprattutto perché nelle sue mani venivano recapitati sistematicamente quei fallimenti industriali che, in Italia, nessun politico, nessun sindaco e nessun sindacalista vuole mai davvero risolvere.
Poi, all’improvviso, si è ritrovato sotto la gigantesca luce artificiale della fiducia assoluta che Giuseppe Conte – in particolare nel governo con il Pd – gli ha riservato trasformandolo in una sorta di plenipotenziario di ogni apocalittico problema: dalla tragica pandemia (con la gestione inefficiente e finita sotto inchiesta giudiziaria degli acquisti delle mascherine) alla tragicomica Ilva.
Plenipotenziario decaduto
Un plenipotenziario con tanto di esposizione mediatica compiaciuta se non aggressiva (in Tv, con una fisiognomica sfrontata, si è scagliato contro i “liberisti da salotto”, in un Paese in cui i liberisti non esistono e, se esistono, sono tosti e vendicativi) e con regolare partecipazione a ogni lotteria da nuovi boiardi di Stato: il suo nome era fisso in ogni lista di papabili per Cdp, Enel e Leonardo. All’arrivo di Mario Draghi, gli è mancata la terra da sotto i piedi.
Domenico Arcuri fa parte di un pezzo della struttura di potere tecnica nata nell’alveo del Partito Democratico (non il Pd di fabbrica, ma il Pd della spesa pubblica e dell’intervento sempre e comunque per salvare qualunque crisi economica a qualunque costo) e poi condivisa con i Cinque Stelle: una struttura tecnica molto romana.
Identikit di un ex re di Roma
Ma chi è Domenico Arcuri? Lui si è sempre presentato come uno degli ultimi esponenti della cultura manageriale dell’Iri, anche se non risultano espliciti riconoscimenti “paterni” da parte di Romano Prodi, di solito generoso in questo.