“Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un
artista” cantava Caparezza nel brano di apertura di “Verità
Supposte”.
Però anche il secondo film non è mica uno scherzo
insomma…
Specialmente quando il tuo primo film s’intitola “Lo
Chiamavano Jeeg Robot” ed è considerato (a ragione)
come uno dei film italiani più importanti degli ultimi anni,
avendo avuto l’ardire di riportare il cinema di genere in un
paese da troppo tempo abituato a vedere quasi
esclusivamente drammi, mafia e scoregge sui propri
schermi.
L’opera prima di Gabriele Mainetti ha trionfato grazie alla
tanto inusuale quanto efficace intuizione di ambientare una
storia di supereroi tra le ostili vie della malfamata periferia di
Roma, di stravolgere la struttura dei blockbuster
supereroistici adattandola ad un contesto italiano fino
all’osso, ma quando un film è un capolavoro, si tende
sempre a credere che difficilmente possa essere superato.
Certo, il fatto che stavolta fosse stato messo a disposizione
del regista romano un budget dieci volte maggiore grazie
alla co-produzione tra Italia e Belgio ha fatto ben sperare fin
da subito, ma nella mente di chi vi scrive era ancora ben
radicato il caso dei due film di It diretti da Andrès Muschietti,
il quale ha sfoderato tutta la sua creatività per poter inserire
nel primo film delle soluzioni registiche interessanti per
inquietare lo spettatore e compensare il budget modesto,
per poi dimenticarsi letteralmente come si fa un film e
imbottire il suo seguito di jumpscare e brutta CGI appena gli
è stata data una maggior quantità di soldini.
E se il danaro avessero fatto impigrire pure Gabriele
Mainetti?
Se veramente il cineasta nostrano avesse già finito le idee?
Se “Lo Chiamavano Jeeg Robot” fosse destinato a rimanere
un caso isolato?
Se almeno una di queste tre domande vi è frullata in testa
guardando i trailer o le locandine di questo film, potete stare
tranquilli, preparare il portafogli, e accamparvi di fronte al
vostro cinema di fiducia in attesa del 28 ottobre, perché
Gabriele Mainetti non ha solo ampiamente superato il suo
precedente lavoro, ma ha realizzato qualcosa di totalmente
inedito per il cinema italiano: un blockbuster in piena regola.
Se volete sapere come, addentriamoci nell’analisi senza
spoiler di “Freaks Out”, un film in cui l’immaginazione
diventa realtà e niente è come sembra.
Gli strambi quattro
“Pe ‘na vorta in vita tua te chiedo de pensà in grande”,
esclamava Luca Marinelli nei panni dello Zingaro,
antagonista principale di “Lo Chiamavano Jeeg Robot”.
Guardando “Freaks Out”, viene inevitabilmente da pensare
che il regista abbia deciso di ascoltare il consiglio del suo
stesso personaggio, e non solo per l’enorme mole di risorse
dispiegate per la realizzazione del lungometraggio, ma
anche per come ha deciso di alzare la posta in gioco
adattando la struttura del cinecomic corale.
Nel corso degli anni il cinema di supereroi ci ha abituato ad
un numero incalcolabile di super team, dai reietti X-Men ai
folli Guardiani della Galassia, passando per i poco fortunati
al cinema Fantastici 4 (citati tra l’altro nel film), ed
esattamente come la storia di Enzo Ceccotti richiamava la
struttura degli archi narrativi di eroi come Batman o Spider-
man, la disfunzionale famiglia di Israel, Matilde, Fulvio,
Cencio e Mario prende a piene mani da questi gruppi pur
mantenendo un’identità propria e ben definita.
Nel vedere Claudio Santamaria ricoperto dalla pelliccia di
Fulvio/ l’Uomo Lupo ( incredibilmente simile a quell’altro
Uomo Lupo che combatteva la Camorra ne “La Croce dalla
Sette Pietre”) sarà impossibile non pensare alla Cosa, a
Quasimodo, a Hellboy, o in generale a tutti quei personaggi
reietti a causa del loro aspetto mostruoso, isolati da una
società che non li accetta, e della quale forse nemmeno
vogliono far parte, ma ai cui occhi cercano costantemente di
riscattarsi, cosa che li rende già di base irresistibili, ma a
questo specifico personaggio Mainetti ha l’ottima idea di
aggiungere uno spiccato intelletto e una complessa
personalità, rompendo così lo stereotipo del forzuto tutto
muscoli e niente cervello.
A proposito di cervelli problematici, questo è uno dei pochi
film di supereroi a presentare anche un protagonista con
una vera e propria disabilità mentale, ossia il nano Mario / la
Calamita Umana (Giancarlo Martini) il quale costituisce il
vero e proprio cuore emotivo del film.
L’albino Cencio / il Ragazzo Insetto è invece il comic relief
del gruppo, un giovane dall’animo sensibile che nasconde le
sue fragilità dietro commenti sconci e battute di dubbio
gusto, cosa che permette a Pietro Castellitto di spiccare
costantemente all’interno del variegatissimo cast.
Infine Matilde / la Ragazza Elettrica è la vera protagonista,
colei che ha l’arco narrativo più completo, colei che si
evolve maggiormente col procedere degli eventi, il centro
drammatico della vicenda, un personaggio col quale
Mainetti adatta in maniera eccellente il concetto del
supereroe con super problemi, e che certamente permetterà
alla giovanissima Aurora Giovinazzo di catapultarsi di
prepotenza tra le migliori nuove proposte del cinema
nostrano.
Breve ma estremamente intenso è infine Giorgio Tirabassi
nei panni del prestigiatore ebreo Israel, direttore del Circo
Mezzapiotta e figura paterna dei quattro fenomeni da
baraccone, così apparentemente normale quanto
discriminato nella stessa maniera, se non peggio rispetto ai
suoi strambi amici, dalla società degli anni quaranta.
Tra tutti i personaggi quello che dava maggiori dubbi era il
villain Franz, il nazista con sei dita interpretato dal suo
omonimo Franz Rogowski: il timore era che ci saremmo
ritrovati davanti ad un antagonista piatto e monocorde, il
classico “cattivo perché sì”, ma l’abilità di Mainetti nel
tratteggiare personaggi negativi non si è smentita neanche
stavolta.
Laddove sarebbe stato fin troppo facile contrapporre ai
freaks un esempio di perfezione ariana, si è scelto di
rendere anche lo stesso antagonista un freak, una figura
tragica e grottesca condannata dal suo aspetto ad essere
una vittima di quella stessa società che avrebbe voluto
servire, e spinto costantemente sull’orlo della pazzia dalla
conoscenza di un futuro che non può cambiare.
Più che a un supercattivo nazista come Teschio Rosso, è
più probabile che nel vedere la già traballante salute
mentale di Franz deteriorarsi progressivamente col
procedere degli eventi vi verrà da pensare al Joker
intepretato da Joaquin Phoenix nell’omonimo film.
Tra l’altro è curioso notare come per la seconda volta il
regista abbia deciso di legare l’antagonista alla sfera
musicale, quasi una riprova di quanto ami i suoi cattivi tanto
quanto i suoi eroi: non dimentichiamo infatti che Mainetti è
anche un musicista, tanto da aver lui stesso composto la
colonna sonora del film.
E se da un lato si evita di rendere i nazisti così
gratuitamente cattivi da appiattirli, dall’altro lato si evita
anche un’eccessiva idealizzazione dei partigiani, come
dimostra il ruvido personaggio del Gobbo, interpretato da un
Max Mazzotta al quale viene data l’occasione di sfruttare al
meglio la propria formazione teatrale per incarnare un
personaggio tanto sopra le righe quanto ambiguo, un
combattente con uno scopo nobile ma consumato a tal
punto dal conflitto che sembra quasi esserselo dimenticato,
e le cui interazioni con Matilde rientrano tra gli elementi più
intensi del film.
Una favola per adulti
Fin dalle prime immagini era evidente come Mainetti avesse
deciso di optare per un’estetica circense, quasi favolistisca,
non troppo distante da quella del Pinocchio di Matteo
Garrone, ed era quindi legittimo chiedersi quanto e se
questo dettaglio avrebbe influito sul film.
Ebbene, lo svolgimento e le atmosfere sono effettivamente
surreali, irrealistici, quasi simbolici (basti pensare a scene
inverosimili come quella del cannone, agli impossibili trucchi
di prestigio di Israel, o agli stessi poteri dei Freak e di Franz,
la cui origine non viene mai spiegata nel corso del film) ma
questo non incide in alcun modo sull’effettiva maturità della
pellicola che, anzi, tra contenuti violenti e sessuali, e un
racconto che affonda le proprie radici nella Storia più cruda
(e qui si pensi alla sequenza del bombardamento di San
Lorenzo), se possibile osa ancora più di “Jeeg Robot”.
E se è vero che le favole hanno sempre una morale, un
sottotesto, quello di “Freaks Out” è un messaggio
sull’accettazione del prossimo come di sé stessi: dal
superamento del costante senso di colpa di Matilde, alla
follia di Franz che esplode nel momento del definitivo rifiuto
della propria unicità, passando per gli stessi partigiani,
rappresentati come grotteschi e ricolmi di amputazioni, a
contrapporsi con l’apparente perfezione fisica dei nazisti,
ogni elemento di questa pellicola è riconducibile a quel
messaggio di apertura nei confronti delle diversità sempre
più presente in un numero in costante aumento di prodotti
televisivi e cinematografici, un messaggio sempre più
presente anche e soprattutto nel genere dei cinecomic
(basti pensare al variegatissimo cast dell’imminente
“Eternals”), ma purtroppo non sempre ben gestito, tanto da
scadere fin troppo spesso in quell’insopportabile
politicamente corretto che tanto ci piace prendere in giro tra
meme e commenti sui social.
Ed è anche per questo che oggi dobbiamo dire grazie a
Gabriele Mainetti.
Perché oggi noi italiani possiamo dire, non senza una certa
dose di orgoglio personale, di aver fatto con i blockbuster
ciò che abbiamo già fatto con gli spaghetti: abbiamo preso
un prodotto tipicamente straniero e lo abbiamo reso di gran
lunga migliore.
Source link
di Ivan Guidi
www.2duerighe.com
2021-10-27 11:06:36 ,