NEW YORK – L’umanità sarà salvata dall’Apocalisse ambientale grazie ai tre “cavalieri verdi” che svettano in cima alle classifiche della ricchezza mondiale? I tre sono, nell’ordine di gerarchia patrimoniale: Jeff Bezos, Elon Musk, Bill Gates. E’ una gerarchia che cambia di ora in ora visto che le loro ricchezze sono per la maggior parte azioni quotate in Borsa. L’ultimo dato disponibile piazzava Bezos e Musk a un livello simile, compreso fra i 180 e i 190 miliardi di dollari ciascuno; Bill Gates un po’ distanziato attorno ai 130 miliardi. Per quanto le Borse possano conoscere fluttuazioni repentine, questi tre rimarranno a lungo nella Top Ten dei più ricchi del pianeta. Eppure se ne parla spesso come di salvatori, del pianeta stesso, visto il loro impegno nella lotta al cambiamento climatico. Quanto è reale, quanto è credibile, alla luce delle rispettive biografie e storie aziendali? Ha senso la narrazione di un ecosistema soccorso dai multimiliardari, dopo che lo stesso sviluppo economico è stato individuato come una causa determinante dell’emergenza climatica?
I miliardari del cambiamento climatico. Musk in testa, ma la maggior parte è cinese
di
Jaime D’Alessandro
Le storie dei tre “cavalieri verdi” sono profondamente diverse tra loro. Nell’ordine logico e cronologico, bisogna cominciare da Bill Gates. Perché il fondatore della Microsoft ha il curriculum più nutrito, e forse il più credibile. Dal 2008 ha abbandonato ogni responsabilità ai vertici della Microsoft, per dedicarsi a tempo pieno alla filantropia. La Bill & Melinda Gates Foundation è considerata la più grande organizzazione filantropica esistente; la sua reputazione di efficienza fa sì che altri multimiliardari preferiscano darle in appalto la propria attività filantropica.
L’attività di Bill e di sua moglie Melinda è stata resa ancora più visibile – e controversa – dalla pandemia, visto che uno dei filoni della loro filantropia riguarda la diffusione dei vaccini nei paesi poveri. Ma il tema dell’ambiente è sempre stato tra le loro priorità. Qualcuno vede l’ombra lunga di Gates anche sul “Grande Reset” lanciato dal World Economic Forum di Davos l’anno scorso, visto che il fondatore di Microsoft è uno dei più assidui e autorevoli frequentatori di quel raduno. Il “Grande Reset” è un piano di sviluppo sostenibile per il mondo post-covid, che ha scatenato diverse teorie del complotto (per lo più di estrema destra). Come figura diabolica che orchestra cospirazioni planetarie, Gates ha superato George Soros, un altro miliardario ambientalista.
Di recente il fondatore della Microsoft ha pubblicato un manifesto ambientalista, il saggio “Clima, come evitare un disastro. Le soluzioni di oggi. Le sfide di domani”. L’ala più radicale dell’ambientalismo lo accusa di essere un tecno-ottimista, troppo fiducioso sulle potenzialità dell’innovazione per risolvere l’emergenza climatica. I più pignoli hanno contestato la sua partecipazione azionaria in una società di jet privati, non esattamente un business sostenibile. Più in generale il problema rappresentato da Gates è la sua influenza enorme nel mondo delle fondazioni non-profit: distribuisce così tanto denaro a così tante istituzioni e persone, che è difficile trovare qualche scienziato disposto a criticarlo. Anche tra coloro che vogliono salvare il mondo, esistono i conflitti d’interessi.
Il fondatore e presidente di Amazon, Jeff Bezos, è una figura ancora più controversa e contestata, ma di recente si è imposto all’attenzione del mondo ambientalista. Dopo aver snobbato la filantropia per tutta la prima parte della sua carriera (si dice che Bezos avesse, come il fondatore di Apple Steve Jobs, il “complesso di Bill Gates” cioè l’ossessione di non poter mai fare altrettanto bene del filantropo numero uno), di recente l’azionista di controllo di Amazon ha annunciato che spenderà 10 miliardi di dollari per la lotta contro la crisi climatica. Per spendere presto e bene quei fondi ragguardevoli, ha assunto un manager di grande esperienza in questo campo: Andrew Steer, già dirigente della Banca Mondiale e poi del World Resources Institute. Ma per quanto la sua dedizione alla causa ambientale sia sincera e generosa, restano molti dubbi sul personaggio.
Il fenomeno Amazon è segnato dal peccato originale dell’elusione fiscale: originario della East Coast, il fondatore si spinse fino a Seattle per pagare meno tasse possibile; dalle origini quel Dna non si è mai smentito e Amazon è accusata di elusione da diversi governi stranieri. Un suo progetto per sdoppiare il quartier generale creandone uno gemello a New York venne contestato, fra gli altri, dalla deputata locale del partito democratico Alexandria Ocasio-Cortez per l’enormità degli sgravi fiscali che Bezos pretendeva. Altre controversie sono in corso, sulla campagna di Amazon per impedire l’ingresso del sindacato nei suoi stabilimenti. Infine c’è un problema che riguarda proprio la sostenibilità. Il modello Amazon, che ha collezionato trionfi e in particolare ha stravinto la sfida del lockdown nel 2020, si fonda sulla proliferazione di imballaggi e sul via vai di camion per le consegne. Non è esattamente la prefigurazione di un’economia a zero emissioni. Proprietario – a titolo personale, non tramite Amazon – del Washington Post, quotidiano che ha condotto una battaglia di opposizione contro Donald Trump, Bezos spera di essersi conquistato così un lasciapassare a sinistra.
Dei tre cavalieri versi, Elon Musk almeno in apparenza è quello che ha le credenziali ambientaliste più attendibili. Dopotutto la sua fama originaria è legata alla Tesla, il gioiello californiano all’avanguardia nella tecnologia dell’auto elettrica. A differenza di Gates e Bezos, quindi, Musk è un industriale che diventa multimiliardario proprio con un prodotto che promette di tagliare le emissioni carboniche. Anche Musk però è una calamita che attira ogni sorta di polemiche. Lui sembra volerlo, a differenza degli altri. Non ha mai fatto mistero delle sue simpatie di destra, ha avuto un buon rapporto con Trump. Alla fine dell’anno scorso ha trasferito la sua residenza dalla California (democratica) al Texas (repubblicano) in cerca di un trattamento fiscale meno oppressivo, ed ha annunciato che anche alcune attività della Tesla potrebbero lasciare il clima anti-business della West Coast. Ma oltre alle simpatie politiche, è sotto esame la stessa credibilità di Musk sul fronte della lotta alla crisi climatica. L’auto elettrica non è un toccasana, per ragioni ben note: tutto dipende dal modo in cui l’energia elettrica viene generata; poi c’è il dissesto ambientale legato all’estrazione di minerali rari necessari per le sue batterie, nonché la questione dello smaltimento delle stesse batterie al termine del ciclo di vita.
Più in generale il problema legato ai tre “cavalieri verdi” riguarda la sostenibilità sociale e il profilo di classe di questo tipo di ambientalismo. Il 2020 è stato un anno segnato da un ulteriore peggioramento delle diseguaglianze sociali, proprio per effetto del boom di valore azionario di Big Tech, che ha ulteriormente arricchito Bezos, Musk, Gates e i loro simili. Se proprio loro vengono identificati come simboli, portavoce e leader di un certo tipo di ambientalismo, il rischio è di farlo apparire come distante dalle preoccupazioni e dagli interessi della maggioranza dei lavoratori.