Nella crisi incombente delle democrazie europee, le cose sembrano sempre destinate a crollare, ma poi non succede (quasi) mai. L’ascesa dei sovranisti, ci avvertivano, ci avrebbe disconnettere dalla globalizzazione: gli eredi ideologici di Mussolini in Italia sono però rimasti nel solco euro-atlantista. In Inghilterra, dopo la Brexit, i Tory si sono incartati. In Francia, Marie Le Pen non è ancora riuscita a conquistare l’Eliseo. Dalla Spagna dove i neofranchisti sono fuori dal governo alla Polonia dove e i cattolici reazionari hanno appena perso le elezioni, la rivolta delle destre sembra, per ora, poca roba.
Eppure, nel cuore d’Europa sta prendendo forma una tempesta perfetta. Succede nella sua ex potenza egemone, la Germania. L’invasione russa dell’Ucraina ha infranto la tradizionale riluttanza della politica tedesca nei confronti delle alleanze militari e del riarmo, e introdotto un concetto del tutto nuovo per diverse generazioni di tedeschi: quello di una “guerra giusta“. Dopo le esitazioni iniziali nel sostenere Kyiv e disconnettersi dal gas russo, oggi non c’è capitale europea più inflessibile, nella retorica contro Mosca, di Berlino.
Per giungere a questa svolta la Germania ha dovuto, però, chiudere un occhio su un evento di una gravità inaudita: il sabotaggio del gasdotto Nord Stream, una sua infrastruttura strategica. Nonostante diverse inchieste indichino negli ucraini i responsabili di quello che si può definire come un atto di guerra e di eco-terrorismo, il governo tedesco ha continuato, senza colpo ferire, a sostenere massicciamente il Paese da cui sembrerebbe essere provenuto l’attacco. Tutto bene, comunque, se non fosse che le svolte geopolitiche hanno bisogno di un contesto economico favorevole, per trovare consenso.
Deindustrializzazione alle porte?
E invece, gli sviluppi recenti nei mercati energetici hanno spinto i prezzi all’ingrosso dell’energia europea a livelli senza precedenti nel 2022, creando un’enorme differenza di prezzi tra l’Europa e altre regioni. E in nessuna nazione dell’Unione la paura di una calo drastico della produzione industriale è più forte che in Germania, dove il settore manifatturiero costituisce oltre il 20% del pil, e dove il basso costo dell’energia è stato uno storico volano dell’export.
Confrontate con un mix letale di elevati costi energetici, carenza di manodopera – causa l’invecchiamento della cittadinanza e l’ostilità di parte importante dell’opinione pubblica per la forza lavoro straniera – e una moltitudine di ostacoli burocratici, molte delle più grandi aziende tedesche – dai giganti come Volkswagen e Siemens a una serie di aziende meno conosciute e più piccole – stanno finendo in bancarotta. E minacciano, in caso di mancati aiuti da parte dello Stato, di cercare terreni più fertili in Nord America e Asia.
Leggi tutto su www.wired.it
di Paolo Mossetti www.wired.it 2023-10-28 04:30:00 ,