Forse quei tre dovremmo ripensarli da piccoli, all’epoca dei primi calci e dei primi sogni. Il piccolo Sandro, i piccoli Nicolò. Chissà quanti hanno soffiato nelle loro orecchie il sussurro del successo, chissà a che età hanno avuto il primo agente, il primo regalo che sembrava già un contratto da grandi, i primi soldi veri. Tanti, troppi. Da spendere e da sprecare.
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La vicenda di Fagioli, Zaniolo, Tonali, e non sappiamo di quanti altri, ci richiama a un modello educativo che non esiste più. La solitudine degli atleti bambini, spesso allontanati dalle famiglie per inseguire una carriera che, si sa, riguarda assai meno del famoso “uno su mille” della canzone. Quando aveva 13 anni, Cristiano Ronaldo telefonava tutte le sere alla mamma, piangendo, per essere riportato a casa, a Madeira, via da Lisbona. Eppure, poi è diventato CR7. Ma quanta parte dei suoi denari ha ripagato quel dolore?
Il terribile scenario ludopatico, che forse è anche sociopatico, dei calciatori scommettitori, pone domande che arrivano da lontano ma che affondano anche nell’ipocrisia di un sistema che, con una mano, invita a scommettere e vivere d’azzardo (le scommesse legali, sulle quali lo Stato lucra), e che con l’altra mano punisce. La metà dei club di Serie A ha rapporti commerciali diretti con società che agiscono nella sfera del gioco d’azzardo: per il quale sarebbe in teoria vietata la pubblicità (dal 2018, “Decreto Dignità”, articolo 9), ma è un divieto aggirato senza problemi ogni domenica, anzi ogni giorno: cartelloni pubblicitari del “betting” negli stadi, spot televisivi durante le partite, pagine pubblicitarie su quotidiani, riviste e siti online. Perché è stato stabilito che comunicare le quote delle giocate è lecito, così come aprire siti informativi con il nome delle società del gioco d’azzardo. Persino il divieto di pubblicizzare queste società sulle maglie di gioco dei calciatori, potrebbe cadere presto: perché quei soldi che arrivano da sponsorizzazioni a tal punto pericolose, sempre sul limite tra divertimento e patologia (non si ripeterà mai abbastanza che il gioco d’azzardo non è affatto un gioco, ma una grave dipendenza patologica), oggi vengono dirottati all’estero, dove gli abbinamenti azzardo/casacca sono possibili. E il governo Meloni sta pensando di reintrodurre questa possibilità, perché senza quei soldi il sistema calcio soffre ancora di più.
In Italia si gioca d’azzardo per oltre 130 miliardi di euro l’anno, di cui oltre 70 solo online: questo è il giro d’affari complessivo (anche se, per quanto riguarda il sommerso, non può che essere presunto). I giovani campioni che scommettono online perché malati, annoiati, non amati e soli, fanno in fondo parte di quell’immensa schiera di giocatori d’azzardo che ogni giorno vagano nel web, nelle sale giochi o nelle tabaccherie. Per accorgersi della spaventosa portata del “gratta e vinci”, con le sue ormai numerosissime varianti, è sufficiente sostare per qualche minuto alla cassa di un autogrill o in un tabaccaio. Si vedranno sfilare persone di ogni tipo, giovani e anziane, italiane e straniere, ben vestite o malmesse, tutte a inseguire la chimera della vincita facile e immediata, quasi sempre nella speranza di compensare le perdite precedenti che possono essere state rovinose: questo ha confessato Nicolò Fagioli, spiegando che alzava sistematicamente la posta tentando di rientrare, almeno in parte, dai suoi colossali debiti di gioco.
Sembra un film di fantascienza, o forse dell’orrore. Gli psichiatri li chiamano “circuiti dopaminergici del sistema mentale”, cioè il meccanismo per lui il gioco diventa una sorta di doping del cervello, creando una dipendenza per nulla diversa da quella prodotta dall’alcol o dalle droghe. Ma il male comincia sempre da più lontano. Spesso, è la ferita di bambini non amati.