La Libia è una prigione da cui è sempre più difficile uscire. I numeri parlano da soli: dei circa 600.000 migranti di 44 nazionalità che si stima siano presenti in questo momento solo 40.000 ( e di 9 nazionalità) sono registrate nel programma di ricollocamento dell’Unhcr. Di queste appena 1662 sono risucite a lasciare la Libia l’anno scorso e altre 3.000 sono tornate nei Paesi d’origine con il programma di rimpatrio volontario dell’Oim.
“Occorre che i Paesi sicuri offrano protezione ai migranti intrappolati in Libia e accelerino con urgenza l’evacuazione dei più vulneravili, rafforzando i meccanismi già esistenti e aprendo canali alternativi”, l’appello di Medici senza Frontiere che, nella Giornata mondiale del rifugiato, presenta il suo rapporto ” Fuori dalla Libia”. I pochi canali legali verso Paesi sicuri messi a punto da Unhcr e Oim – denuncia Msf – “sono lenti e restrittivi” e le equipe mediche presenti in Libia da anni denunciano l’impossibilità di proteggere da abusi e violenze i migranti in Libia, fuori e dentro i centri di detenzione.
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato interviene il presidente Sergio Mattarella: “L’Italia contribuisce con responsabilità al dovere morale e giuridico di solidarietà, assistenza e accoglienza dei rifugiati, assicurando pieno sostegno all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e promuovendo nelle sedi europee un impegno incisivo e solidale in materia di migrazioni e asilo. L’azione a favore dei rifugiati va rafforzata ora, nei momenti di accentuata crisi, secondo quell’approccio multilaterale, del quale l’Italia è storica e convinta sostenitrice”.
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di
Giuliano Foschini e Serenella Mattera
La denuncia
“In Libia la maggior parte dei migranti è vittima di detenzioni arbitrarie, torture e violenze, incluse quelle sessuali – dice Claudia Lodesani, responsabile delle operazioni di Msf in Libia – la loro possibilità di ottenere una protezione fisica e legale è estremamente limitata, per questo la rotta migratoria, spesso mortale, attraverso il Mediterraneo, rimane l’unica via di fuga. Crediamo che i paesi sicuri – specialmente nell’Unione europea, che da anni finanzia la guardia costiera libica e sostiene i respingimenti forzati dei migranti in Libia – abbiano il dovere di facilitare l’evacuazione e la protezione, sul proprio territorio, di queste persone vittime di violenza”.
Storia di John: due anni in attesa di evacuazione e poi la fuga
John, 38 anni, in fuga dall’Eritrea per sfuggire al servizio di leva obbligatorio a tempo indeterminato, in Libia ha trascorso tre anni rinchiuso in quattro centri di detenzione. Per tre anni, dopo essere stato registrato dall’Unhcr come richiedente asilo, ha sperato di essere tra i fortunati ad essere evacuati con un corridoio umanitario, ma alla fine anche lui ha scelto la strada del barcone e nel 2020 è riuscito ad arrivare a Lampedusa. Oggi racconta così la sua storia: “La prima volta che ho cercato di attraversare il Mediterraneo è stato a dicembre 2017. Il trafficante ci aveva detto: alcuni di voi partiranno oggi e gli altri domani. Siamo rimasti sulla riva mentre 180 persone salivano a bordo di un’imbarcazione che poco dopo sarebbe affondata. Siamo fuggiti. Qualche giorno dopo anche la barca che avrei dovuto prendere io è affondata: ottanta persone sono annegate.
“L’Unhcr aveva iniziato a registrare i richiedenti asilo come me e a trasferirne alcuni in Europa e in Nord America. Poichè la registrazione avveniva nei centri di detenzione ho deciso di farmi rinchiudere in un centro a Tripoli dove sono rimasto sette mesi”. Nei mesi successivi John viene trasferito in diversi centri, anche in zona di guerra, e lì si è ammalato di tubercolosi. ” Un giorno – racconta – ci hanno fatto salire su un autobus e ci hanno detto: Siete in una zona di guerra. Sarete accompagnati alla struttura di raccolta e partenza dell’Unhcr a tripoli. Eravamo tutti felici, sapevamo che chi veniva ospitato in quel centro veniva poi selezionato per essere trasferito dalla Libia verso l’Europa o il Nord America”. Ma in quel centro John non è mai arrivato: ha vissuto per strada, senza lavoro, senza un tetto, poi è tornato in un centro di detenzione. Alla fine si è detto: “Ho aspettato per due anni e cinque mesi che mi portassero via dalla Libia e non è successo nulla. Perchè rimanere qui? Cercare di attraversare il mare significa andare incontro alla morte ma lo stesso vale se rimango in Libia. Nel novembre 2020 sono salito su una barca con 100 persone. Abbiamo raggiunto Lampedusa da soli. Quasi tutti i miei compagni sono ancora bloccati in Libia, solo quattro sono stati trasferiti, molti sono dispersi in mare, catturati dalla guardia costiera, decessi di tubercolosi o uccisi. Io sono stato fortunato, oggi sono al sicuro in Europa, ho un lavoro, sono libero”.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2022-06-20 09:01:00 ,www.repubblica.it