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Data : 2023-11-28 16:30:30
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Nell’ottobre del 2022, dopo il successo alle elezioni, Giorgia Meloni si rifiutò di affidare il ministero della Giustizia a un esponente di Forza Italia. Silvio Berlusconi rivendicava con forza quel ruolo per Maria Elisabetta Alberti Casellati, ex presidente del Senato. Meloni, però, durante le trattative per la composizione del suo governo, non cedette perché non voleva rianimare la tensione tra la destra e la magistratura.
Tra Berlusconi e i giudici si trascinava infatti un conflitto mai davvero risolto vecchio di quasi trent’anni, e Meloni non voleva entrarci. Anche per questo affidò il ministero della Giustizia a Carlo Nordio, ex magistrato di orientamento conservatore e poi per molti anni saggista ed editorialista di convinte posizioni garantiste, cioè rispettose delle garanzie di persone imputate e indagate. Come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, cioè di fatto come suo vice, Meloni scelse Alfredo Mantovano, magistrato con quasi quarant’anni di carriera e al contempo politico di lungo corso in Alleanza Nazionale prima e del Popolo della Libertà poi: tutti segnali che testimoniavano una certa volontà di Meloni di distendere i rapporti tra la propria parte politica e la magistratura.
Ma nonostante questo, il conflitto coi giudici ha toccato in questi mesi dei picchi di tensione come non succedeva da molto tempo, e più volte in questo anno di governo proprio dirigenti di Fratelli d’Italia e del governo hanno alimentato polemiche aspre. In questo senso, l’esperienza del governo Meloni si pone in sostanziale continuità con una stagione politica, quella del “berlusconismo”, caratterizzata da una contrapposizione pressoché permanente tra politica e magistratura.
Tangentopoli, anzi no
L’origine di tutto quanto si fa comunemente risalire a Tangentopoli, come viene generalmente chiamato quel periodo tra il 1992 e il 1994 in cui tutto il sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, quello che aveva gestito il potere in Italia fino ad allora, crollò principalmente a seguito di inchieste sulla corruzione della procura di Milano note come “Mani Pulite”.
Alcuni degli esponenti del Partito socialista (PSI), che più di tutti fu coinvolto dagli scandali, e varie personalità vicine al leader socialista Bettino Craxi confluirono in Forza Italia, il partito fondato da Berlusconi nel 1994: di qui, dunque, un certo inevitabile risentimento nei confronti dei magistrati. Inoltre, la tesi che prese consistenza molto presto tra i partiti del centrodestra fu che i magistrati che dirigevano le indagini di Mani Pulite avessero in qualche modo salvaguardato il PDS, il Partito democratico della sinistra erede del Partito comunista (PCI), i cui dirigenti furono coinvolti solo in maniera molto marginale nelle inchieste, e di certo in misura assai minore rispetto a quelli degli altri principali partiti. Che questo fu dovuto davvero a un riguardo speciale o a una preferenza politica da parte dei magistrati milanesi nei confronti del PDS, e non alla mancanza di prove reali per giustificare delle imputazioni o delle accuse, non è tuttavia mai stato ragionevolmente dimostrato.
In ogni caso, a partire dalla metà degli anni Novanta, tra i partiti e i giornali del centrodestra divenne popolare l’ipotesi secondo cui Tangentopoli fosse stata una grande operazione politica per consentire la presa del potere per via giudiziaria degli eredi del PCI, fino ad allora rimasti esclusi dai posti di governo. I magistrati di Milano avrebbero dunque contribuito a destabilizzare il regime politico fino ad allora in vigore per fare arrivare la sinistra alle più alte cariche dello Stato: un piano che tuttavia Berlusconi, con la sua “discesa in campo”, avrebbe scombinato vincendo le elezioni nella primavera del 1994.
Questa è però una lettura retrospettiva, nel centrodestra italiano si affermò definitivamente solo alcuni anni dopo quelle vicende. Nei mesi più intensi di Tangentopoli, in realtà, i partiti del centrodestra furono tra i principali sostenitori del cosiddetto pool di Mani Pulite, la squadra di giudici che conduceva quelle indagini. Durante una discussione alla Camera del 16 marzo del 1993, i deputati del Movimento Sociale Italiano (MSI, l’antenato di Fratelli d’Italia) sventolarono in aula spugne e guanti come per dire: bisogna fare pulizia, hanno ragione i giudici. Un deputato della Lega Nord, Luca Leoni Orsenigo, agitò in aria un cappio come a suggerire che l’unica soluzione per i politici corrotti fosse la forca. Il primo aprile alcuni militanti del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile dell’MSI, organizzarono una manifestazione davanti a Montecitorio, la sede della Camera, urlando all’indirizzo dei deputati: «Arrendetevi, siete circondati».
Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e gli altri magistrati che componevano il pool di Mani Pulite avevano un enorme consenso popolare in quei mesi. Erano visti un po’ come i salvatori della patria, e sostenerne l’iniziativa era dunque un modo con cui i partiti di destra, coinvolti piuttosto limitatamente nell’inchiesta, cercavano di conquistarsi il favore della gente.
Lo stesso Berlusconi fondò molta della retorica della sua “discesa in campo” sulla necessità di rompere le logiche tradizionali della politica travolta dalle inchieste e dalla corruzione. Si spiega così il fatto che, dopo aver vinto le elezioni nel marzo del 1994, Berlusconi chiese a Di Pietro, la figura forse più carismatica del pool, di entrare a far parte del suo governo come ministro dell’Interno. Non è mai stata smentita neppure la notizia per cui in quello stesso contesto venne proposto a Piercamillo Davigo di diventare ministro della Giustizia.
Il conflitto permanente
Un’eventuale data simbolica a cui far risalire l’inizio dello scontro tra il centrodestra italiano e la magistratura andrebbe cercata un po’ più avanti: il 22 novembre del 1994. Berlusconi aveva da poco vinto a sorpresa le elezioni, era capo del governo da sei mesi e si trovava a Napoli per presiedere la Conferenza mondiale dell’ONU sulla criminalità. Un evento a cui lui teneva molto, e a cui parteciparono rappresentanti di oltre 140 paesi. Quella stessa mattina il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina una notizia clamorosa titolando così: «Milano, indagato Berlusconi».
I magistrati convocarono Berlusconi per un’indagine su alcune presunte tangenti versate alla Guardia di Finanza. Solo che questa delicata comunicazione, che di norma dovrebbe essere consegnata all’interessato nella massima riservatezza, avvenne tramite il principale quotidiano nazionale.
Quel processo, dopo una condanna in primo grado in cui Berlusconi venne riconosciuto colpevole di aver pagato la Finanza per attenuare le verifiche su alcune sue società, si estinguerà in prescrizione, come successe spesso negli anni seguenti. Seguirono più di venticinque anni di inchieste, udienze e processi: indagini che riguardarono l’attività di imprenditore di Berlusconi, i bilanci delle sue aziende e le tasse versate o non versate, conti all’estero, presunti finanziamenti illeciti, ma anche le operazioni finanziarie del Milan di cui Berlusconi fu a lungo presidente. Poi il divorzio con sua moglie Veronica Lario, la mafia, le stragi e tutta la vicenda legata alle cene nella sua villa di Arcore.
Solo in un caso Berlusconi fu condannato in via definitiva: a quattro anni di carcere nel processo Mediaset, di cui tre ridotti grazie all’indulto e uno scontato con l’affidamento ai servizi sociali in una casa per anziani di Cesano Boscone, in provincia di Milano.
Era il 2013. Nel frattempo più volte le vicende giudiziarie di Berlusconi si erano intrecciate, talvolta condizionandole, alle scelte politiche che il centrodestra prendeva quando era al governo. Tra il 2001 e il 2008 ci fu il periodo delle cosiddette leggi ad personam, cioè norme che vennero adottate da diversi governi Berlusconi e che riguardarono in maniera più o meno diretta procedimenti e reati che interessavano lui stesso. Lodo Schifani, legge Cirami, legge ex Cirielli, legge Gasparri, lodo Alfano: sono solo alcuni dei provvedimenti che possono essere inseriti in questo lungo elenco.
In quel periodo Berlusconi insultò e attaccò apertamente e di frequente i magistrati: «comunisti», «toghe rosse», «golpisti», «antropologicamente diversi dalla razza umana», «matti», solo per fare gli esempi più noti. Questa ostilità non riguardò solo Berlusconi, ovviamente, ma si rifletté su tutto il suo partito e sull’intero centrodestra. Nel marzo del 2013 Berlusconi rifiutò di andare al tribunale di Milano citando una malattia agli occhi, l’uveite, come legittimo impedimento. I magistrati ordinarono una visita fiscale per controllare che dicesse la verità.
In risposta decine di parlamentari del suo partito si diressero verso il Palazzo di Giustizia di Milano con l’intenzione di occupare l’aula dove si svolgeva l’udienza: furono poi cacciati dal tribunale e rimasero accalcati sulla scalinata esterna, cantando l’inno di Mameli. Tra quei parlamentari c’erano vari membri dell’attuale governo (Raffaele Fitto, Daniela Santanchè, Casellati) e numerosi esponenti dell’attuale maggioranza.
Non è ancora finita
Il 17 novembre di quell’anno, infatti, proprio la condanna al processo Mediaset provocò la decadenza di Berlusconi dal Senato, come conseguenza dell’applicazione della “legge Severino”, una riforma del reato di corruzione voluta dalla ministra della Giustizia del governo di Mario Monti.
Negli anni seguenti la tensione tra Forza Italia e la magistratura rimase a bassa intensità e talvolta riemerse in modo clamoroso, ma in generale ci fu una relativa normalizzazione dei rapporti, per la quale si spese molto anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Napolitano entrò spesso in conflitto con Berlusconi proprio sui temi legati alla giustizia, anche duramente, contestando nel merito alcuni provvedimenti. Allo stesso tempo si impegnò per dissuadere i dirigenti del Partito Democratico, partito a cui lui era legato, dall’utilizzare i temi connessi ai problemi giudiziari di Berlusconi come strumento retorico delle loro battaglie politiche.
In quel periodo il responsabile Giustizia del PD era Andrea Orlando, che ricorda ancora le telefonate con cui Napolitano lo convocava al Quirinale la mattina presto, dopo aver letto i giornali, per rimproverare la linea troppo dura del centrosinistra appunto sulla giustizia. «Non che apprezzasse le leggi ad personam dal governo Berlusconi, ci mancherebbe. Ma riteneva che esasperare i toni non aiutasse a risolvere il problema, anzi», racconta Orlando. «Per cui si raccomandava di stare cauti, di non esagerare».
Una volta Anna Finocchiaro, allora capogruppo del PD al Senato, invocò «le barricate» in un’intervista contro una delle leggi ad personam, il lodo Alfano. La mattina in cui l’intervist uscì, Napolitano chiamò Orlando molto presto e gli disse «Vieni un po’ su da me al Quirinale». Si fece trovare nel suo studio col giornale in mano e il viso contrariato: «Volevo che mi parlassi un po’ di queste barricate».
Gli anni successivi furono ancora più tranquilli, soprattutto per la progressiva decadenza di Forza Italia e del suo peso politico in parlamento e nelle istituzioni. Con Meloni sembrava che le ostilità potessero diminuire ulteriormente, ma almeno finora non è stato così. Persino la scelta di Nordio si è rivelata un cortocircuito, con il ministro della Giustizia che vede le sue proposte garantiste puntualmente contraddette dai dirigenti di Fratelli d’Italia, il partito che lo ha voluto. La riforma della giustizia, più volte annunciata, per ora è ferma in Senato, dove sta seguendo un percorso piuttosto rallentato, messo in coda alle riforme dell’autonomia e a quella costituzionale a cui evidentemente Meloni e il leader della Lega Matteo Salvini tengono molto di più.
In più di un’occasione gli attacchi contro la magistratura sono partiti direttamente dalla sede della presidenza del Consiglio, e cioè Palazzo Chigi, dove si supponeva che la presenza di un magistrato autorevole come Mantovano potesse valere a evitare questo tipo di incidenti. Nel luglio del 2023 lo staff di Meloni diffuse alle agenzie di stampa alcune dichiarazioni di grande ostilità verso i magistrati, accusati di volersi sostituire all’opposizione in vista delle elezioni europee in seguito alla decisione del giudice per le indagini preliminarI (gip) di procedere all’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, di Fratelli d’Italia.
Il gip aveva ritenuto di respingere la richiesta di archiviazione su Delmastro presentata dal pubblico ministero, che evidentemente non riteneva ci fossero elementi sufficienti per mandarlo a processo per rivelazione di segreto d’ufficio in merito al caso del detenuto anarchico Alfredo Cospito. Poche ore dopo vennero mandate le dichiarazioni alle agenzie di stampa, descritte come provenienti da «fonti di Palazzo Chigi»: è un espediente protettivo che si usa per ricondurre comunicati anonimi direttamente al governo, senza esporre la presidente del Consiglio in prima persona. In ogni caso Meloni ribadì nei giorni seguenti le stesse critiche ai magistrati sulla vicenda di Delmastro, seppur con toni meno perentori.
Il senso di queste polemiche agitate dal governo stava appunto qui: nel ritenere che i magistrati volessero tenere un atteggiamento persecutorio nei confronti del governo di destra in virtù di un loro orientamento politico. Volevano insomma attaccare Meloni e la sua maggioranza attraverso inchieste e indagini mosse da un convincimento ideologico: la stessa tesi, in sostanza, che sta alla base della presunta macchinazione denunciata di recente dal ministro della Difesa Guido Crosetto, anche lui di Fratelli d’Italia. In entrambi i casi, le evidenze di questa intenzione persecutoria dei magistrati sono assai traballanti.
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