La delicata e difficile arte del compromesso Lorenzo Guerini – classe 1966, laurea in scienze politiche, di professione consulente assicurativo – la impara presto, nella dimora natale di Lodi. In questo caso un “compromesso storico” in miniatura: padre sostenitore del Pci, agli inizi degli anni Novanta intraprende la carriera politica nelle file della Democrazia cristiana. Due volte consigliere comunale nella sua Lodi, svolge anche la funzione di assessore ai servizi sociali e nel ’94 è prescelto come coordinatore locale del costituendo Partito popolare italiano, erede della Dc. L’anno dopo viene eletto primo presidente della provincia di Lodi da poco istituita a capo di una larga coalizione di centrosinistra, diventando a 28 anni il più giovane presidente di provincia in Italia. Due mandati, poi l’elezione a primo cittadino di Lodi al primo turno.
Nel frattempo nasce la Margherita, poi confluita nel Pd assieme agli eredi del Pci-Ds: stavolta il “compromesso storico” è davvero nazionale. L’approdo in Parlamento, dopo aver vinto le parlamentarie volute dall’allora segretario dem Pierluigi Bersani, avviene nel 2013. Con Matteo Renzi dalla prima ora, Guerini diventa subito la sua eminenza grigia e il suo braccio destro prima nella scalata alla guida del partito (dicembre 2013) e poi al governo (febbraio 2014). Portavoce della segreteria, poi vicesegretario, poi coordinatore: è sempre lui il “Gianni Letta” di Renzi, l’infaticabile mediatore, l’artefice del Patto del Nazareno con Forza Italia sulle riforme costituzionali e la legge elettorale, il detentore dei dossier più delicati del partito e del governo.
Renziano, certo, ma prima di tutto democratico. Perché Guerini non segue Renzi nella scissione dell’autunno 2019: le cronace parlamenari raccontano di una discussione molto accesa durante la quale “il democristiano” – come è chiamato Guerini dai compagni di partito per la sua arte del compromesso – pronuncia il suo niet spiegando all’ex premier che «lasciare il Pd è un errore di cui ti pentirai».
Non sappiamo se Renzi si sia mai pentito (lui, naturalmente, dice di no), ma certo è che non si è pentito Guerini, che da allora ha continuato a rappresentare il Pd – di cui è ancora oggi il leader della minoranza interna di Base riformista – ai massimi livelli: ministro della Difesa già nel Conte 2, ha continuato ad esserlo con il governo di larga coalizione guidato da Mario Draghi fino a rappresentare la stampella più solida del premier sul fronte della guerra in Ucraina. Proprio il suo essere baluardo dell’asse atlantico e uno dei più convinti sostenitori della necessità di aiutare anche militarmente la resistenza ucraina ha suscitato l’avversione neanche tanto nascosta del presidente del M5s Giuseppe Conte, che alla guida del Copasir avrebbe voluto una figura ai suoi occhi meno schierata.
Ma alla fine, grazie anche al sostegno del segretario uscente del Pd Enrico Letta, l’accordo sul suo nome ha tenuto. È un ritorno, quello di Guerini alla guida del comitato di controllo sui Servizi segreti: all’inizio della scorsa legislatura, quando il Pd era all’opposizione del giallo-verde Conte 1, aveva già ricoperto il prestigioso incarico. Già schivo nei commenti politici, c’è da giurare che ora Guerini, pur sostenendo la candidatura di Stefano Bonaccini alla segreteria del Pd, si terrà ancora più defilato dalle beghe interne del suo partito. Tra i primi dossier in arrivo, per dire, c’è il sesto decreto armi. Con i 5 Stelle già sulle barricate “pacifiste”.