The Truman Show appartiene a quella categoria di film capaci non solo di parlarci del nostro presente, ma di mostrarci la verità più profonda e scomoda sul futuro, inteso nel senso più ampio del termine. Quell’1° giugno 1998, quando uscì la première a Los Angeles, Peter Weir firmò uno dei film più fondamentali del XX secolo a livello semantico, di certo uno dei più disturbanti, definizione che di anno in anno, mentre si realizzava la sua profezia, diventava sempre più puntuale, più reale, più paurosa. Celebrare Truman, il suo dramma, di base significa letteralmente guardarsi allo specchio.
Il film definitivo sulla scomparsa della privacy
The Truman Show sembra uscito ieri, anzi oggi. Nessun altro film di fine XX secolo ha saputo farsi portatore di una verità così cristallina e reale sulla civiltà occidentale, sulla sua evoluzione tecnocratica e le conseguenze che questa ha avuto a livello individuale e collettivo.
Molto più anche della saga di the Matrix, di Dark City o e che sarebbero stati Minority Report e V for Vendetta, the Truman Show pare sia stato creato da qualcuno che è stato negli anni 2000, per poi tornare indietro e raccontare la fine del concetto di privacy, il trionfo della quotidianità come nuova narrazione, la schiavitù dell’individuo isolato da tutti. Andrew Niccol creò la sceneggiatura nel 1991, ma la sua era una storia cupa, distopica, per come dipingeva un’umanità senza empatia. La Paramount però cercava un regista di maggior spessore. Dopo i nomi di De Palma, Spielberg e Gilliam, fu Peter Weir a venir scelto, su suggerimento dello tesso Niccol. Weir cambiò molto della sceneggiatura originale, intuì che connettersi alle vecchie sit-com, abbracciare un’ironia di facciata, poteva aiutare a rendere il film più efficace, più potente. Serviva però l’attore giusto, serviva Jim Carrey perché solo lui poteva connettere la commedia al dramma universale.
The Truman Show grazie alla fotografia di Peter Biziou e alle scenografie di Gassner, Johnson e Haigh, abbracciava fin dall’inizio un’identità a metà tra spot pubblicitario e sit-com televisiva retrò. Il tutto era connesso alla volontà di un’estetica plastificata, ma più ancora platealmente falsa, commerciabile, la cui ricercatezza però affondava in riferimenti come la pittura del corso “realista romantico”, ma più ancora l’idealizzazione comune alla società degli anni ’60 d’Oltreoceano. Truman, ragazzo che fin dalla nascita è stato protagonista inconsapevole di un reality, vive in una piccola comunità in cui ogni aspetto dell’esistenza appare perfetto o comunque intangibile.
Vicini sorridenti, case lussuose, uno stile di vita da american dream che è una bugia duplice: Truman è circondato da attori, compresa la moglie Meryl e i suoi migliori amici, ogni instante della sua esistenza è sostanzialmente sorvegliato h24 da una regia che ubbidisce ai comandi del dispotico e narcisista Christof. Questi è il Deus Ex Machina di quella gigantesca costruzione, di quel mondo in cui persino la luce è artificiale, le onde, il clima. Da quell’artificiosità lui, trentenne che improvvisamente apre gli occhi sulla bugia che è la sua esistenza, cercherà di scappare con ogni mezzo.
The Truman Show fin dall’uscita in sala divise la critica, comunque entusiasta, sull’obiettivo centrale della sua narrazione: una metafora del rapporto tra uomo e Dio? Un film sulla mancanza di libertà dell’essere umano nel mondo? Sulla sua schiavitù rispetto alla sovrastruttura sociale? A 25 anni di distanza, the Truman Show è diventato un grido d’allarme sulla dittatura tecnocratica che invade l’intimità umana, sulla degradazione della nostra narrazione culturale che smette di elevarsi per inseguire l’effimero da tramutare in qualcosa di alto. I reality show già erano realtà, ma chi poteva prevedere che un quarto di secolo dopo, quelle telecamere non sarebbero più state negli angoli più insospettabili ma nelle nostre mani consapevoli? Eppure, the Truman Show ci parlava proprio di questo futuro che ormai si faceva evidente, della volontà di rendere il quotidiano il nuovo palcoscenico, la normalità più blanda uno show universale, portare lo sguardo dello spettatore dentro l’intimità dei suoi simili slegando il tutto da un momento artistico. La vita è arte, l’arte diventa vita, ma una vita che viene falsata, distrutta, modificata in funzione del fine ultimo: intrattenere, con ogni mezzo, in ogni modo, costi quel che costi.
Una profezia inquietante che si è realizzata
Jim Carrey ebbe in dote un personaggio con cui far comprendere la sua universalità di interprete. Ancora oggi, the Truman Show rimane il vertice del suo percorso attoriale, che pazzamente l’Academy non giudicò neppure valevole di una nomination agli Oscar. Eppure, il suo Truman, rimane anche più di Neo o di V, il personaggio simbolo della ribellione di quella generazione che, sul finire di anni ’90, lottava con tutte le sue forze per la propria autodeterminazione e la possibilità di avere un mondo libero dai diktat economici e culturali imposti. Il politico si unisce all’esistenziale, il religioso al culturale. Ed Harris si erge come simbolo di un Dio malvagio e dispotico, da antico testamento, è un burattinaio che dirigere un gigantesco alveare da dittatore.
Il suo narcisismo patologico è nascosto dalla falsa umiltà che esibisce con fierezza, il look falso semplice e new age, il tono dimesso, il fare freddo e distante, sono tutti elementi con cui il personaggio si muoveva abbracciando non solo il futuro dell’economia, digitale e non, ma dei suoi protagonisti: gli imprenditori “artisti”.
Se Truman è metafora della generazione X e Millennial, di chi chiede maggior libertà e diritti, di quella protesta che verrà strangolata a Toronto e Genova, Christof, con quel nome che scimmiotta il Salvatore, anticipò la piaga moderna dei guru. 25 anni fa Bill Gates e Steve Jobs già facevano la storia in questo senso, ma solo questo film poteva prevedere ciò che sarebbe stato cucito addosso a loro ed ai loro epigoni negli anni a venire. Musk, Bezos, hanno concretizzato ciò che Christof mostrava in quel 1998: l’imprenditore-magnate che smette di essere tale tout court.
Ogni suo gesto, ogni sua scelta, anche la più assurda, sono giustificati da una narrazione che sposa il culto della personalità. Christof è definito un genio, ciò che fa è giustificato perché come un Da Vinci o un Dalì, egli ha il diritto ad essere diverso moralmente dagli altri in quanto portatore di una creazione divina. E Truman? Diventa il simbolo della presa di coscienza di una bugia, della necessità di andare oltre i limiti, di seguire il proprio istinto, la volontà di conoscenza. Moderno Ulisse fermo in una Ogigia sterile e falsa, infine sceglie come Neo la pillola rossa: una vita reale e insufficiente invece dell’Eden artificiale, in quel finale disturbate e bellissimo.
Truman infine scappa, incontra Sylvia, ex comparsa che lottava per la sua libertà, mentre il pubblico neppure capisce che è stato complice di un crimine. Il programma finisce, si cambia solamente canale, si cerca la nuova tendenza, la novità per il nostro egoistico piacere. Negli anni a venire, avremmo capito che the Truman Show avrebbe anticipato non solo la narrazione televisiva invasiva dell’intimità, ma gli stessi social media, il cambiamento del concetto di fruizione, che si nutre dei nostri simili, del Grande Fratello imperante. Più ancora, avremmo avuto la normalità ricreata artificialmente, simulata, così come era quell’isola sotto una cupola. Sotterraneo, anche il dramma del controllo da parte dei Governi, della tecnologia come nuova catena verso le masse, come teorizzato da Gramsci, Philip K. Dick e Heilein. Christof e quelli come lui hanno vinto e nessuno di noi ha il coraggio di prendere quella barca, lasciare il mare della tecnologia e affrontare la vita reale. Preferiamo il falso Eden dei video su Tik Tok o delle false reaction su Youtube, il farci comandare a bacchetta pur sapendo che è tutta una bugia.
Leggi tutto su www.wired.it
di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-06-01 11:00:00 ,