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Data : 2024-05-24 09:14:13
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La strada che va da Shengjin a Gjader, nel nord dell’Albania, è pianeggiante e per un lungo tratto costeggia una catena di montagne. Ha due corsie, tanto strette che spesso bisogna rallentare per far passare i mezzi che arrivano dalla direzione opposta, e alla fine la carreggiata lascia spazio a un solo veicolo, pur rimanendo a doppio senso. A metà strada si incontra un impianto per la produzione di cemento gestito dalla società italiana Colacem, e una grande cava di pietra che entra nel fianco della montagna. Solo dopo una ventina di minuti si iniziano a scorgere alcune case abbandonate e altre che sembrano appena costruite, ma anche vari greggi di animali al pascolo e alcune stalle.
È da qui che dovrebbero passare, secondo i piani del governo italiano e di quello albanese, migliaia di richiedenti asilo al mese, soccorsi in acque internazionali e fatti sbarcare dalle autorità italiane appositamente in Albania, in attesa che la loro domanda di asilo venga esaminata. Il progetto sarebbe dovuto partire lo scorso 20 maggio, ma i lavori sono in ritardo e le strutture non sono ancora pronte. Intanto molte parti dell’accordo rimangono problematiche, a partire dal rispetto dei diritti dei migranti e dalle preoccupazioni dei residenti locali, che non hanno ricevuto alcuna comunicazione ufficiale e non sanno esattamente quando inizieranno gli sbarchi, né come o da chi verranno gestite le procedure di accoglienza.
Un piano partito male
Il protocollo tra Italia e Albania per il “rafforzamento della collaborazione in materia migratoria” fu firmato lo scorso 7 novembre dalla presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e dal suo omologo albanese Edi Rama. Prevede che l’Italia costruisca e gestisca tre strutture in territorio albanese, dove dovrebbero essere portate migliaia di migranti che altrimenti arriverebbero in Italia. Meloni ha spiegato più volte che l’obiettivo è di alleggerire la pressione sul sistema di accoglienza italiano, inadeguato e pieno di problemi, e allo stesso tempo dissuadere i migranti e quindi ridurre le partenze dai paesi del Nord Africa.
Il piano prevede la costruzione di tre strutture. La prima è un hotspot, ossia un centro per lo sbarco e l’identificazione dei migranti, a Shengjin. Per via della dominazione italiana fascista nel paese tra il 1939 e il 1943 circa, i toponimi albanesi hanno anche un corrispettivo italiano: Shengjin è nota anche come San Giovanni Medua. È una città di mare circa un’ora di macchina a nord della capitale Tirana, e negli ultimi anni ha iniziato a sviluppare un forte turismo. A Gjader, una frazione del comune di Lezhë nell’entroterra rurale del paese, dovrebbero essere costruiti un centro di prima accoglienza per i migranti che chiederanno asilo, da 880 posti, e un Centro di permanenza e rimpatrio (CPR) da 144 posti. Ci sarà anche un carcere, organizzato per ospitare un massimo di 20 detenuti, nel caso in cui qualche migrante dovesse essere messo in custodia cautelare mentre è trattenuto nei centri.
Lo scorso marzo il ministero dell’Interno italiano pubblicò un bando per la gestione dei tre centri, e i lavori cominciarono a inizio aprile. Tutto doveva essere pronto entro il 20 maggio, ma fin dall’inizio ci furono dubbi sulla fattibilità: ci sono stati infatti ritardi e i centri non sono ancora completati. Il 20 maggio l’hotspot di Shengjin, al porto, era a buon punto, mentre a Gjader non c’era quasi nulla: sul terreno su cui dovrebbero essere edificati i due CPR si vedevano qualche ruspa, dei camion e dei blocchi di prefabbricati ordinati uno sopra l’altro. I lavori sembravano appena cominciati.
«Se ci chiedono qualcosa noi collaboriamo»
Il porto di Shengjin dista circa dieci minuti a piedi dalle spiagge, separato dal centro della città e dall’area turistica. Non è molto grande, si percorre facilmente a piedi, ma si trova in un’area demaniale a cui non è possibile accedere senza autorizzazione. L’area dell’hotspot è subito a sinistra dell’ingresso, ben riconoscibile perchè recintata su tutti i lati da una sorta di muro di metallo. Dai punti rimasti aperti per permettere il passaggio degli operai e dei mezzi di lavoro si scorgono quattro strutture prefabbricate, piuttosto grandi e di colore bianco, dove verranno portati i migranti subito dopo lo sbarco per essere identificati. Sul molo del porto verrà inoltre predisposto uno spazio apposito per l’attracco delle barche italiane con a bordo i migranti.
Le autorità del porto non sanno praticamente nulla su come funzioneranno le procedure di sbarco e identificazione. Il direttore Sandër Marashi spiega che i dipendenti albanesi non hanno nulla a che fare con l’hotspot: «Non lo stiamo costruendo noi, ma gli italiani», dice. «Abbiamo solo dato loro lo spazio [all’interno del porto]». Marashi non sa esattamente come stiano procedendo i lavori, anche perché i dipendenti albanesi non possono entrare nella zona dell’hotspot senza prima ricevere un’autorizzazione dagli italiani. «Se ci chiedono qualcosa noi collaboriamo», dice, aggiungendo però che non succede spesso. Il porto non ha ricevuto alcun indennizzo economico legato alla costruzione dell’hotspot.
Secondo Marashi i lavori sono quasi finiti e la struttura potrebbe essere pronta entro pochi giorni. Non sa ancora con precisione cosa succederà quando l’hotspot diventerà operativo, né se le autorità albanesi avranno un qualche ruolo nella sua gestione. Non sembra però particolarmente preoccupato, anche perché sa che dopo l’identificazione i migranti saranno subito trasferiti a Gjader, e quindi loro non dovranno più occuparsene. L’hotspot «non interferirà con le altre attività del porto, che continueranno normalmente», dice.
Tutte e tre le strutture saranno costruite e gestite dalle autorità italiane: l’Albania non sosterrà alcun costo per il progetto. Non è un dettaglio da poco, considerando che le strutture di Gjader devono essere costruite su un terreno vuoto e inutilizzato da decenni, dove quindi è necessario non solo tirare su edifici capaci di ospitare più di mille persone, ma anche predisporre tutte le allacciature con le reti idriche, fognarie ed elettriche, le connessioni internet, i trasporti e i servizi per i migranti e per i futuri dipendenti. Il governo italiano ha stanziato 65 milioni di euro per la costruzione delle strutture, ma dal 2025 in poi i costi di gestione dovrebbero aggirarsi intorno ai 120 milioni di euro all’anno.
Le incognite sulle procedure
Il modo in cui funzioneranno gli sbarchi e l’accoglienza è macchinoso. In teoria, secondo le informazioni al momento disponibili, saranno fatti sbarcare a Shengjin migranti maschi, maggiorenni e in buona salute soccorsi dalle autorità italiane – quindi dalla Guardia Costiera, dalla Guardia di Finanza o dalla Marina Militare, ma non dalle ong – al di fuori delle acque territoriali dell’Italia o di altri stati membri dell’Unione Europea. In Albania arriveranno inoltre solo persone provenienti da paesi considerati “sicuri”, ossia dove il governo italiano ritiene che l’ordinamento democratico e i diritti della gente siano rispettati. Negli anni però questa definizione è stata attribuita in modo arbitrario anche a paesi dove le violazioni sono note e sistematiche, come la Nigeria e la Tunisia.
Nella maggior parte dei casi le domande di asilo presentate da cittadini di paesi “sicuri” vengono rifiutate: per questo in base al decreto “Cutro”, approvato lo scorso maggio, il loro esame deve seguire una procedura accelerata che può durare al massimo 28 giorni. Mentre aspettano l’esito, i migranti possono essere trattenuti in stato di detenzione amministrativa in centri come quelli da costruire in Albania.
Non potranno invece arrivare in Albania i migranti minorenni, le donne, le persone in condizione di vulnerabilità o quelle che provengono da paesi considerati non sicuri. Non è chiaro però dove verrà fatta la selezione tra le persone soccorse, se a bordo della nave, in Italia o in Albania, né da chi o in base a quali norme.
A Shengjin i migranti sbarcheranno in territorio albanese e verranno identificati nel nuovo hotspot costruito sui terreni demaniali del porto e gestito dalle autorità italiane. Saranno poi trasferiti a Gjader e attenderanno che le loro domande siano esaminate nei due centri costruiti nell’entroterra, dai quali non potranno uscire per nessuna ragione: la sicurezza sarà garantita all’interno da personale italiano e all’esterno dalle autorità albanesi.
In caso di rifiuto della domanda i migranti dovrebbero essere rimpatriati, ma non è chiaro come questo succederà: non si sa per esempio se potranno partire direttamente dall’Albania, oppure se prima dovranno tornare in Italia. In ogni caso, è difficile che le cose funzionino sempre come previsto: il meccanismo dei rimpatri è notoriamente poco efficiente, e ci sono molti dubbi sul fatto che tutte le domande di asilo possano essere esaminate entro 28 giorni, soprattutto nel periodo estivo, quando i flussi migratori diventano più intensi.
I residenti un po’ spaesati
A fine maggio Shengjin è vuota, e nel tardo pomeriggio sul lungomare passeggia una decina scarsa di persone. I tanti ristoranti del centro sono aperti ma non si vedono clienti, mentre sulla spiaggia gli stabilimenti balneari hanno già piantato alcune file di ombrelloni e lettini, ancora vuoti. Nemmeno gli abitanti di Shengjin sembrano particolarmente preoccupati riguardo ai piani del governo italiano e alla futura apertura dell’hotspot. Hanno scoperto del progetto come tutti gli altri, guardando la tv o leggendo i giornali, ma non c’è stata alcuna comunicazione specifica da parte delle autorità locali sull’inizio dei lavori, sul funzionamento dell’hotspot e sul ruolo dell’Italia.
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«Anche noi siamo stati migranti verso altri paesi, per noi non ci sono problemi», dice Artur, il proprietario di un negozio di cartoleria (le persone intervistate per questo articolo hanno voluto identificarsi solo con il nome proprio). «Mi sembra che tutto sia già pianificato», aggiunge, riferendosi al fatto che le procedure di accoglienza dovrebbero rimanere circoscritte alla zona del porto, senza quindi interessare il centro cittadino.
Zef è un altro residente che abita vicino al porto: «Se tutto avviene in modo controllato, per noi non è nulla di straordinario», dice. Sa che i centri avrebbero dovuto aprire il 20 maggio, ma ha visto che quel giorno non è successo nulla: «Non so nient’altro», aggiunge riguardo a una possibile data per l’inizio degli sbarchi. Altri residenti dicono di non sapere nulla del centro, oppure di averne sentito parlare solo vagamente come qualcosa che succederà nella zona del porto, quindi un po’ lontano dalla città, ma di non conoscere molti altri dettagli.
L’entroterra e i cantieri ancora alle fasi iniziali
A Gjader, nell’entroterra, la situazione è diversa. È una piccola frazione del comune di Lezhë, che dà il nome anche alla regione (in italiano si chiama Alessio). Si trova nell’entroterra e non è chiaro quanti abitanti abbia, dato che non esistono statistiche ufficiali: probabilmente poche centinaia, residenti in piccole case a uno o due piani sparse sul territorio pianeggiante, con vie tanto strette che a malapena ci passa una macchina. Ci sono un oratorio e un centro giovanile gestito dalle suore, qualche bar con i tavoli all’aperto e le sedie colorate. Poco lontano il fiume Drin, che attraversa Albania, Kosovo e Macedonia del Nord, si biforca e dà inizio al fiume Gjader, che da qui procede verso est. L’area in cui il governo italiano sta costruendo i due CPR si trova all’interno di una base militare dell’aeronautica, ora in disuso.
I due CPR costruiti e gestiti dalle autorità italiane dovrebbero occupare una porzione piuttosto ampia dell’ex base militare. Il 20 maggio, il giorno in cui i due centri avrebbero dovuto aprire, i lavori sembravano ancora alle fasi iniziali: dall’esterno è impossibile vedere tutta l’area del cantiere, ma ci sono almeno due ingressi principali da cui si riesce a scorgere qualcosa.
Il primo si affaccia sulla strada principale che porta a Gjader e viene usato per far entrare e uscire gli operai e i camion che trasportano i materiali edili, il secondo dà direttamente sull’ex pista di atterraggio degli aerei. In generale tutta la zona sembra ben lontana dall’essere agibile. Il 22 maggio alcuni deputati del Partito Democratico sono entrati nel cantiere e hanno diffuso dei video girati all’interno: si vedono solo dei camion e delle ruspe sparsi in tutta l’area, nulla di più.
Dal momento del rinvio dell’apertura dei centri – in realtà sembrato probabile fin dall’inizio – non è stata comunicata nessun’altra data per l’inizio delle operazioni di accoglienza, anche se il 12 maggio il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva detto che l’obiettivo del governo rimaneva quello di aprire i centri «al più presto». A Gjader gli abitanti hanno saputo del progetto prima che questo fosse annunciato pubblicamente. Armondo, il barbiere locale, dice che i cittadini iniziarono a discuterne circa un anno fa come di una «possibilità», una voce che circolava. Inizialmente gli abitanti pensavano che i migranti sarebbero stati ospitati direttamente nelle strutture dismesse che si trovano all’interno dell’ex base militare, che avrebbero dovuto essere ristrutturate. Questa opzione è però stata scartata a favore della costruzione di due nuovi CPR.
Lo scorso novembre gli abitanti di Gjader appresero della formalizzazione degli accordi dai giornali e dalle tv, così come tutti gli altri. Furono organizzate alcune proteste, soprattutto nella città di Lezhë, che però rimasero sempre piccole e non riuscirono ad avviare un vero dibattito sul tema. Anche oggi per alcuni è difficile parlarne: suor Alma, che gestisce tutte le attività del centro di aggregazione delle suore della congregazione delle Maestre Pie Venerini, dice di essere a conoscenza del progetto, ma di non poterlo commentare perché il vescovo locale, Simon Kulli, ha chiesto espressamente di non farlo.
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