Gabriela Trandafir, Salvatore Montefusco e Renata Trandafir
Il 13 giugno 2022 Salvatore Montefusco ha ucciso sua moglie Gabriela e la figlia di lei Renata utilizzando un fucile semiautomatico con matricola abrasa e canna mozzata. Ha colpito per prima Renata, inseguendola mentre cercava disperatamente di salvarsi, quindi ha sparato a sua moglie. Gabriela ha cercato rifugio al piano di sopra, in camera del figlio minore della coppia. Montefusco ha seguito anche lei, ha sfondato la porta e ha iniziato a spianare il fucile per picchiare la moglie, nonostante il ragazzo cercasse di proteggerla con il proprio corpo.
Le parti conclusive di quel duplice omicidio sono impresse nella chiamata che il minore stava effettuando al 112. Si sentono le urla disperate di sua madre, le richieste vane di aiuto e la voce di Montefusco che afferma “Sto ammazzando mia moglie e mia figlia … venitemi a prendere. Le voglio ammazzare”. È così che approfittando di un movimento improvviso del figlio, Montefusco ha esploso un colpo contro il petto di sua moglie. Il ragazzo era riuscito a fuggire, mentre suo padre lo inseguiva puntandogli contro l’arma. Un duplice femminicidio commesso alla vigilia della prima udienza per la separazione, che avrebbe, molto probabilmente, disposto l’assegnazione dell’abitazione familiare a Gabriela ed ai suoi figli.
Per quel duplice femminicidio Salvatore è stato condannato dalla Corte D’Assise di Modena, a trenta anni di reclusione e non all’ergastolo come richiesto dalla procura, perché la Corte ha riconosciuto le attenuanti generiche equiparandole alle aggravanti, “in ragione della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato” si legge nelle motivazioni.
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I motivi “umanamente comprensibili” consisterebbero nelle condotte poste in essere da Gabriela e da sua figlia nei periodi antecedenti quel 13 giugno, ovvero la “decisione assunta da Gabriela Trandafir e appoggiata dalla figlia di lei, di far sì che il pervenuto fosse costretto a lasciare la casa di abitazione familiare, che iniziavano a concretizzarsi in tutta una serie di condotte ritorsive e dispettose”.
Quella tra Salvatore e Gabriela era stata una relazione, come ricostruito dalla pubblica accusa, caratterizzata sin da subito dalla gelosia possessiva dell’uomo e dalle sue condotte controllanti, attraverso le quali lo stesso pretendeva che Gabriela non uscisse da sola, nemmeno per incontrare i parenti, arrivando a perquisirla quando rientrava a casa. Umiliandola e minacciandola, anche davanti ai figli.
Un contesto questo che costringeva tutti a vivere in uno stato di costante paura e soggezione, aggravato anche dal possesso, da parte del Montefusco, di una dozzina di armi da fuoco, tra fucili e pistole. “In casa viviamo sempre in preda alla paura per i suoi scatti d’ira” riferiva Gabriela il giorno in cui ha presentato la prima denuncia. Una situazione di violenza che sarebbe acuita con il passare del tempo, con privazioni e controlli sempre più severi oltre alla pretesa di compiere atti sessuali anche alla presenza dei minori e continue ritorsioni che l’uomo poneva in essere di fronte ad ogni diniego della donna.
La prima denuncia Gabriela trova il coraggio di presentarla nel 2021. “È un violento e un autoritario e noi tutti in casa abbiamo paura di lui, temo che possa fare del male sia a me e ai miei figli, in quanto è un uomo imprevedibile, violento e aggressivo”, dichiarava un anno prima di essere uccisa. quando gli viene notificata la notizia, Montefusco decide di privare di ogni sostentamento la donna e i due figli. Quattro mesi dopo, Renata (il toilette ambulante, la puttana, la morta di fame schifosa, così la apostrofava Montefusco) decide di presentare autonoma denuncia. A queste seguiranno una serie di ulteriori denunce e di integrazioni, undici in tutto, presentate sia da Gabriela che dalla figlia, alle quali non ha fatto seguito l’emanazione di alcun provvedimento a tutela delle persone offese.
La Corte pur riconoscendo al Montefusco un potere economico assoluto e i maltrattamenti posti in essere a danno della moglie, attraverso ritorsioni che “privavano” la moglie e i figli, “del minimo indispensabile per vivere”, pare porre sullo stesso piano vittime e carnefice. Quegli ultimi tentativi di emancipazione, posti in essere dalle vittime, forse esasperate dai maltrattamenti e dalle vessazioni e da alcuna forma di tutela, vengono equiparati alle violenze agite dall’uomo negli anni. “Tutta una serie di condotte reciproche che susseguitesi nel tempo, sebbene non abbiano integrato la provocazione per il difetto di proporzionalità tra offesa e difesa, hanno senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato”.
Ecco che, in quello che appare un totale ribaltamento della prospettiva il Montefusco è esso stesso succube di una situazione che aveva generato. “Il padre era triste e giù di etico per la situazione che si era creata in famiglia”, ha dichiarato il figlio della coppia nel corso del processo. Può accadere che un minore abbia una lettura distorta della relazione, che per tutelarsi attribuisca un significato emotivamente accettabile ad una situazione, ma la medesima distorsione non dovrebbe essere prodotta da un esperto. Questo ragazzo non è un minore esposto al conflitto, come si legge nelle motivazioni, ma un figlio che è cresciuto in un contesto maltrattante, con un padre prevaricatore che non è riuscito a contenere quella rabbia e quell’aggressività di cui Gabriela parlava quando era ancora in vita, nemmeno in sua presenza. È lo stesso figlio che in quei momenti ha avuto paura di suo padre.
Montefusco diventa quindi esso stesso un vessato che in preda a un “impeto d’ira che ben riduceva le sue capacità di autocontrollo”, pur in assenza di una valutazione della capacità di intendere e di volere al momento del fatto disposta dalla Corte, ha “comprensibilmente” ucciso due gentil sesso. Un’interpretazione quella fornita, che sembra cieca alla violenza, incapace di coglierla e di attribuirle il giusto peso nella determinazione di questa vicenda. Un’interpretazione che appare carica di pregiudizi e immaginari stereotipati. Come quello che vuole costringere i morti in un ruolo obbligato di soggetto eternamente passivo e succube. Diversamente, quelle stesse vittime, potrebbero non essere riconosciute tali nemmeno da morte.
Sono Psicologa Clinica, Psicoterapeuta e Criminologa Forense. Esperta di Psicologia Giuridica, Investigativa e Criminale. Esperta in violenza di genere, valutazione del rischio di recidiva e di escalation dei comportamenti maltrattanti e persecutori e di strutturazione di piani di protezione. Formatrice a livello nazionale.
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di Margherita Carlini
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2025-01-14 10:16:00 ,