Un fantasma si aggira dalla parti di Largo del Nazareno e della sinistra in cerca di identità dopo la sconfitta del 25 settembre che ha regalato l’Italia alla destra di Giorgia Meloni. Il fantasma del leader, per citare il bel libro di Alessandra Sardoni che già anni fa (si era nel 2009) aveva lui come protagonista: Massimo D’Alema. Ossia il leader che da quando non si è più potuto sedere a capotavola ha utilizzato molte delle sue energie per condizionare e rendere difficile la vita a chi gli è succeduto: prima Walter Veltroni (dimessosi nel 2009, appunto), poi Matteo Renzi: una guerra aperta tra il 2015 e il 2017, fino alla scissione del febbraio 2017 con la fondazione di Articolo 1 assieme a Pier Luigi Bersani. Un progetto che avrebbe dovuto erodere il consenso del partito renziano a sinistra e che invece ha finito per erodere se stesso (mai il nuovo partito ha raggiunto il 2% da solo).
Il fantasma di D’Alema e il rientro dei bersaniani di Speranza
Ora è il momento del grande rientro a abitazione dei bersaniani di Articolo 1 guidati dall’ex ministro della Salute Roberto Speranza. Rientro reso possibile dal segretario dimissionario Enrico Letta, forse per un debito di lealtà nei confronti dell’ex segretario Pier Luigi Bersani di cui è stato a lungo vice, con l’invenzione del percorso “costituente” e la scrittura di un nuovo Manifesto dei valori spostato a sinistra. Un manifesto in cui mancano molte cose: oltre alle parole crescita e merito presenti invece nel Manifesto fondativo veltroniano del 2008, manca la vocazione maggioritaria, ossia l’ambizione di parlare a tutto il Paese e non solo a una sua parte, e manca anche il riferimento al Pd come partito frutto dell’unione di diverse culture riformiste, e quindi non solo quella socialista ed ex comunista ma anche quella liberale e quella cattolico democratica.
Letta e il viatico del Manifesto spostato a sinistra
Poco importa che, a causa della sollevazione dei riformisti e del candidato in pole Stefano Bonaccini, il nuovo Manifesto non abbia alla fine sostituito quello veltroniano (della faccenda se ne occuperà il nuovo segretario e la nuova assemblea dopo le primarie del 26 febbraio): sulla carta lo spostamento a sinistra c’è e quindi Articolo 1 può rientrare. Speranza con i suoi, dal capogruppo alla Camera Arturo Scotto a Nico Stumpo fino ad Alfredo D’Attorre, che il Pd lo aveva lasciato addirittura prima degli altri. E D’Alema? Non sembra alle viste un suo rientro formale nel partito, così come non sembra alle viste un rientro di Bersani. «Davvero non saprei cosa rispondere perché io sono in pensione, sono in pensione da almeno 7 anni. Non so davvero come posso partecipare al dibattito. Ripeto: sono in pensione», si schermisce D’Alema. E subito Letta e Speranza chiariscono in una nota che «mai si è fatto riferimento a singole personalità e tanto meno a D’Alema».
Le mani libere del leader maximo e il progetto «cosa rossa» col M5s
Secondo i dalemologhi l’ex leader maximo in realtà vuole tenersi le mani libere da una parte e dall’altra un piede nel Pd attraverso i “giovani”. L’obiettivo resta quello di spostare il Pd a sinistra e nel medio termine fare una “cosa rossa” assieme al M5s di Giuseppe Conte, di cui D’Alema negli ultimi anni è stato il consigliere politico più ascoltato con il plenipotenziario del Pd romano Goffredo Bettini. Ma c’è un problema: se Articolo 1 appoggia la candidatura dell’ex leader di Occupy Pd Elly Schlein, anche lei uscita dal partito su posizioni anti-renziane e rientrata solo da poche settimane, tutti i pronostici sono a favore del governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini, riformista doc. E dunque? Ai bersanian-dalemiani non resterà che incalzare il Pd da dentro e da fuori rimandando il progetto della “cosa rossa” a tempi migliori, tenendosi appunto le mani libere.
Dal lavoro alle alleanze, due partiti in uno: rischio paralisi
A ben vedere il problema, se dovesse vincere Bonaccini realizzando i pronostici, sarà tutto del nuovo segretario. Perché non è solo una questione di rivalità tra leader ed ex. Sulle singole policies si avvia la convivenza nella stessa abitazione di due partiti: dalle alleanze, che la sinistra vuole solo con il M5s e i riformisti anche se non soprattutto con il Terzo polo, al giudizio sulle riforme del passato, con la sinistra che vuole abolire il renziano Jobs act e i riformisti che piuttosto lo vogliono attuare nella parte delle politiche attive, tutto divide gli ex bersaniani da Bonaccini. Esemplare il dibattito delle ultime ore sul cambio di nome: se per la sinistra, non solo i bersanian-dalemiani ma anche Andrea Orlando e Giuseppe Provenzano, bisognerebbe aggiungere la parola “lavoro”, Bonaccini ricorda quasi tutti i giorni che bisogna rappresentare i “lavori”, ossia anche «gli autonomi e le partite Iva colpevolmente lasciate alla destra». Come potranno convivere due visioni così diverse?