In questo suo volersi modernizzare, il film è riuscito e ben fatto, ma non conquista mai l’epica del suo originale, né ritrova un protagonista con la medesima statura e capacità mitopoietica. Questo è un gladiatore a disagio nel suo ruolo e non potrà mai essere come quell’altro, che pareva nato per esserlo ed è rimasto un mito per i suoi colleghi. E così questo film pare a disagio nel dover esistere: combattuto tra la necessità di ricalcare il precedente e la smania di raccontare altro. Uno che insegue le mode del cinema (i fumetti, il bromance, l’anacronismo, il rivoluzionarismo giovanile…), invece che fondarle.
Più ancora che per il primo film (e per i film storici in generale), quell’epoca romana raccontata è in realtà il nostro tempo. Dopo Francis Ford Coppola e il suo Megalopolis, questo è il secondo film in meno di un mese a usare l’Impero Romano e la sua decadenza per parlare dell’America e della sua di decadenza. Lo capiamo soprattutto quando Denzel Washington ricicla il sogno americano in sogno romano dicendo: “Ero schiavo e ora controllo l’Impero. Dove se non a Roma può accadere tutto questo?“. Solo che, se Coppola alla fine del suo film immagina che per il cambiamento serva una pace tra le parti sociali all’insegna della creatività (e di una nuova nascita), per Ridley Scott serve di abbattere e radere al suolo tutto per poi ricostruire.
È questa la grande differenza: Il Gladiatore era un film sugli ideali, che affermava che ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità, quindi si può anche morire sereni (come fa Massimo Decimo Meridio) per una grande impresa. Era il 2000, poi la cosa non è invecchiata granché bene con l’emergere del terrorismo. Questo invece è un film in cui una nuova generazione vuole fungere quella vecchia e corrotta. È un film sull’abbattere i titani, un film pieno di rabbia per quello che il potere fa alle persone. Un film che non crede più in niente se non nel retaggio del passato (da qui la celebrazione del precedente Gladiatore). E più della rabbia del gladiatore interpretato da Paul Mescal, a passare è la rabbia di Ridley Scott.
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di Gabriele Niola www.wired.it 2024-11-12 16:24:00 ,