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Data : 2023-12-15 16:16:24
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Martedì prossimo, il 19 dicembre, il ministro della Difesa Guido Crosetto parlerà dei contenuti dell’ottavo decreto ministeriale per l’invio di aiuti militari all’Ucraina. Lo farà riferendo al COPASIR, il comitato parlamentare che vigila su questioni di sicurezza nazionale e sull’operato dei servizi segreti, in una seduta che sarà come di consueto riservata.
Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, nel febbraio 2022, la procedura seguita dai governi italiani di Mario Draghi e di Giorgia Meloni è sempre stata la stessa, infatti. Prima il parlamento ha autorizzato di anno in anno il governo a decidere quali e quante armi e munizioni inviare all’Ucraina; poi il ministero della Difesa, con l’intesa di quelli degli Esteri e dell’Economia e con l’assenso della presidenza del Consiglio, ha preparato i provvedimenti (i decreti ministeriali, appunto) con cui autorizza l’invio di dispositivi militari; infine il governo ha riferito al parlamento attraverso il COPASIR.
È una procedura un po’ complessa che serve da un lato a coinvolgere le camere, dall’altro a garantire la segretezza delle procedure. A differenza di altri Stati europei, l’Italia ha scelto infatti di non rivelare il contenuto esatto dei decreti di sostegno all’Ucraina, sia per non fornire troppe informazioni sui propri arsenali sia per evitare che le azioni di guerra che l’esercito ucraino compie in difesa del proprio territorio possano essere direttamente ricondotte al nostro paese. Finora questo sistema, anche se criticato per la sua scarsa trasparenza, ha comunque fatto sì che gli aiuti militari inviati dall’Italia avvenissero con una sostanziale continuità. Adesso le cose si sono complicate sostanzialmente per motivi operativi (gli armamenti cominciano a scarseggiare) e politici.
Il 31 dicembre scade infatti il decreto che consente al governo di proseguire nell’invio di armi e munizioni all’Ucraina. È un provvedimento che funziona come una sorta di “ombrello” legislativo, una copertura che consente al governo di procedere di volta in volta all’effettivo invio di materiale bellico con i singoli decreti ministeriali, che sono atti amministrativi, quindi di rango inferiore rispetto alle leggi ordinarie.
All’indomani dell’attacco russo, il 25 febbraio 2022 il Consiglio dei ministri presieduto da Draghi approvò un decreto-legge che autorizzava il governo a inviare armi alle autorità governative ucraine per tutta la durata dell’anno, in deroga alle leggi ordinarie e secondo le già citate procedure che sarebbero poi state concordate con il parlamento. Il 2 dicembre 2022 il governo di Giorgia Meloni, subentrato nel frattempo a Draghi, approvò in Consiglio dei ministri un decreto di proroga che estendeva a tutto il 2023 questa stessa facoltà del governo di inviare armi e munizioni all’Ucraina. Il parlamento convertì il decreto in via definitiva il 27 gennaio.
Finora il governo di Meloni non ha ritenuto di approvare una nuova proroga per il 2024. Il ministero della Difesa ha detto al Post che ci sarebbero alcune difficoltà ad approvare il decreto in tempi utili, per via dell’eccessivo intasamento parlamentare: ci sono cioè già troppi provvedimenti in discussione tra Camera e Senato, che sono peraltro in grosso affanno di loro per l’approvazione del disegno di legge di bilancio – quello che stabilisce come si useranno le risorse finanziarie nel 2024 – entro il termine del 31 dicembre. Non ci sarebbe il tempo, dunque, per organizzare una seduta dedicata a questo dibattito e rinnovare il mandato al governo, come successe lo scorso anno.
Questo indirizzo da parte del parlamento non sarebbe necessario, in realtà, visto che la proroga avviene per decreto-legge: cioè attraverso un atto d’urgenza approvato dal governo che entra in vigore subito, e che deve poi essere convertito in legge ordinaria dal parlamento nei sessanta giorni successivi. Se volesse, il governo potrebbe farlo anche subito e lasciare che il parlamento si esprima poi con un voto di convalida del decreto a gennaio, quando ci saranno meno provvedimenti in scadenza (è proprio ciò che era stato fatto lo scorso anno).
I dirigenti del ministero della Difesa non sembrano però avere fretta, anche perché questa proroga non sarà necessaria finché non ci sarà da fare un nono decreto ministeriale per inviare nuovi armamenti. L’ottavo, quello di cui Crosetto parlerà martedì al Copasir, garantirà sostegno all’Ucraina per almeno due o tre mesi, stando ai precedenti. Dunque almeno fino a febbraio non dovrebbe esserci un problema concreto connesso alla mancata approvazione della proroga.
Semmai, più che un problema legislativo, ce n’è uno più concreto che riguarda le scorte. Da tempo i massimi responsabili delle forze armate denunciano la difficoltà nella produzione di nuovi armamenti: per garantire il sostegno all’Ucraina si è attinto ad arsenali e depositi che da molti anni non venivano riforniti a livello soddisfacente, e in certi casi è stato necessario restaurare macchinari e dispositivi obsoleti e malfunzionanti. In questo momento c’è scarsità soprattutto di munizioni e granate, di cui l’esercito italiano rischia di restare a corto. Tra gli altri anche il capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale Pietro Serino, ha diffuso allarmi in questo senso. Potrebbe dunque esserci l’esigenza di rallentare il ritmo e l’entità degli aiuti militari all’Ucraina, anche in virtù della difficoltà nel reperire le materie prime necessarie alla produzione di nuove armi.
È un problema che hanno anche altri paesi europei, dove però si stanno studiando varie soluzioni per aggirarlo, come per esempio l’acquisto di nuove armi da girare poi a Zelensky. La Francia nel settembre scorso ha avviato i negoziati per definire una collaborazione industriale con l’Ucraina, finalizzata grosso modo a garantirle una copertura finanziaria per acquistare armamenti e munizioni da aziende francesi. È un’ipotesi valutata in passato anche dall’Italia con il coinvolgimento di Leonardo, l’azienda pubblica che è uno dei leader mondiali nella produzione di armi. Finora non se n’è fatto nulla. Norvegia, Danimarca, Islanda e Svezia hanno invece fatto un patto per coordinare il sostegno all’Ucraina, mettendo in comune risorse anche militari.
Oltre al problema dei rifornimenti, il governo ha anche un problema politico. In questo momento storico l’Occidente non ha più lo slancio di generosità che aveva nelle prime fasi della guerra, e in generale le opinioni pubbliche dei vari paesi sono meno interessate, si sentono meno coinvolte. Il congresso degli Stati Uniti fatica più del solito a sbloccare i nuovi aiuti economici, mentre l’Unione Europa deve inventarsi soluzioni per arginare il veto ai nuovi aiuti per il governo ucraino messo dal premier ungherese Viktor Orbán. La presidente del Consiglio Meloni ha finora difeso in maniera risoluta la linea seguita già da Draghi, di sostegno all’Ucraina su tutta la linea. Il 13 dicembre ha avuto una conversazione telefonica con Zelensky, con cui ha un rapporto di solida stima.
Però nella maggioranza di governo ci sono anche tendenze che vanno nella direzione opposta. La Lega di Matteo Salvini, soprattutto al Senato, ha talvolta espresso forti perplessità riguardo all’orientamento di Meloni, considerato troppo supino nell’accettare le direttive dellla NATO. Più volte esponenti della Lega hanno parlato di un governo – il governo di cui fanno parte – «ostaggio della propaganda bellicista».
Il 13 dicembre scorso, durante il dibattito sulle comunicazioni di Meloni alla vigilia del Consiglio Europeo, il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, è intervenuto in aula rivolgendosi direttamente alla presidente del Consiglio con parole molto nette: «Non possiamo però neanche continuare a sostenere che la pace sia possibile solo se la Russia si ritira e se comunque viene sconfitta a livello militare, perché sostenere questo significherebbe continuare la guerra all’infinito con tutti, con tutte le sue conseguenze e che non vi sia invece la vera possibilità di trovare una soluzione di carattere diplomatico».
Finora l’Italia ha fatto otto decreti ministeriali di aiuto all’Ucraina, ma con un ritmo che è andato facendosi sempre meno intenso. Cinque furono approvati dal governo di Draghi, nel giro di poco meno di otto mesi. Nell’anno in cui è stato in carica il governo Meloni, ne sono stati fatti altri tre. Il tutto comunque in sostanziale coordinamento con le direttive dell’Unione Europea e della NATO.
– Leggi anche: Cosa succede se l’Ucraina rimane senza soldi
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