Il miracolo del modello Bologna, dove i trentenni in gioco hanno unito il centrosinistra

Il miracolo del modello Bologna, dove i trentenni in gioco hanno unito il centrosinistra

Il miracolo del modello Bologna, dove i trentenni in gioco hanno unito il centrosinistra



La scena a raccontarla sembra finta, un po’ marziana, come a tratti l’intero quadro, che pare uscito dal Manuale della fiaba politica, volume uno. Esterno giorno, Piazza Maggiore, Bologna. Lui, Matteo Lepore, 41 anni, si è appena insediato sindaco, dopo essere stato eletto al primo turno con una percentuale record che qui non vedevano da un pezzo e forse non hanno visto mai; il suo primo gesto dopo la vittoria, per dire il tipo, è stato partecipare, da non credente, alla messa di San Petronio, officiata dall’arcivescovo Matteo Maria Zuppi. Lei, Emily Clancy, 30 anni, la più votata in città con oltre 3500 preferenze e probabile vice-sindaca, è appena uscita dall’incontro con Zuppi, che definisce letteralmente «un alleato», nel lavoro di sostegno agli ultimi, e «più a sinistra di Papa Francesco». Lepore e Clancy si incrociano per caso sulla piazza, si sorridono, sfrecciano via: messi insieme fanno 71 anni, tre in meno del premier Mario Draghi che ne ha 74. Alle elezioni comunali, le loro rispettive formazioni – il Partito democratico e Coalizione Civica-Coraggiosa – hanno totalizzato il 43 % (rispettivamente: 36,6 e 7,3). È solo una parte dell’alleanza che ora governerà. E c’è pure il sole.

Così, dopo molti anni di grigiore, Bologna ha ritrovato la sua vocazione smarrita. Di avanguardia e di laboratorio. La città dove nacque l’Ulivo nel 1996 e iniziò il Movimento Cinque stelle con il Vaffa day nel 2007, dove sorse la cometa delle Sardine nel novembre 2019, la città che nel settembre 2021 ha acclamato l’ex premier Giuseppe Conte come un semidio, per le via del centro e alla festa dell’Unità (salvo poi lasciare M5S a terra, al 3,3 %), è adesso di nuovo una fucina. Non le bastasse il fatto di ospitare un papabile (il cardinale Zuppi, appunto) e ben due quirinabili (l’ex premier dell’Ulivo Romano Prodi e l’ex presidente centrista della Camera, Pier Ferdinando Casini) , è ora la culla di un assetto politico che funziona come non si riteneva possibile, e che potrebbe fare da modello, esportabile persino.

Il Pd alleato a una sinistra forte, femminista, ecologista e nuova (Coalizione Civica-Coraggiosa), che fa accordi con pezzi di renzianesimo apocrifo (quello della sindaca di San Lazzaro, Isabella Conti), i Cinque Stelle come alleati minori (Max Bugani, il leader locale, qui ha preso 400 voti); i movimenti dentro, i potenti di ieri ai margini o tagliati fuori (l’area di Francesco Critelli e dell’ex assessore Alberto Aitini), il leader delle Sardine Mattia Santori capolista dem e secondo piazzato nelle preferenze: 2500. E soprattutto, nel complesso, una classe dirigente rinnovata, di trenta-quarantenni, in qualche caso addirittura di ventenni (due terzi degli eletti ha meno di 50 anni) capaci di costruire alleanze sulla base di punti concreti, relazioni chiare, capillare ascolto della città, modelli partecipativi nuovi sulla scia di Barcellona e Londra. Certo più facile farlo in una città come Bologna, dove la qualità della vita è alta e le problematiche abbastanza relative, però.

L’hanno battezzata la «coalizione più larga d’Italia». O anche, per mutuare l’orizzonte che va dandosi il segretario Enrico Letta, il primo esempio di “Ulivo 2.0”, esperienza che tuttavia i suoi protagonisti attuali, tutti nati negli anni Ottanta, hanno conosciuto solo di striscio, nella sua versione originale: Lepore e Conti hanno votato la prima volta alle politiche nel 2001, cioè in piena apoteosi di Silvio Berlusconi, Mattia Santori aveva 18 anni nel 2005, appena in tempo per la seconda vittoria di Prodi, Emily Clancy ha dato il suo primo voto nazionale solo nel 2013. Praticamente, Turigliatto non sanno chi sia. E si spera che questo sia di buon auspicio. Che per lo meno aiuti, nello sviluppare un orizzonte che in partenza ha poco di ordinario.

Non sono ordinari i protagonisti, che hanno biografie di nuovo conio, percorsi di preparazione lontani dall’antipolitica grillina, e che hanno recuperato, con metodi diversi, l’ascolto del territorio che per un tratto sembrava andato perduto. Sono giovani, ma hanno background solidi. Sono, spesso, dei secchioni. Hanno studiato, sono stati all’estero ma poi sono tornati, hanno voluto occuparsi delle loro città con dentro il bagaglio di ciò che avevano visto fuori. Prima di trovarsi dalla stessa parte della barricata se le sono date di santa ragione. Ad esempio Lepore, nato in Legacoop, se l’è dovuta vedere per un verso con Conti, sindaca anti-cemento di San Lazzaro, cioè colei che ha animato e vinto la battaglia ambientalista contro le cooperative per fermare la cosiddetta «colata di Idice». E per l’altro ha dovuto stringere accordi, da ex assessore al Commercio e al Turismo, con la sua ex opposizione: proprio Emily Clancy per cinque anni ha lavorato (fra l’altro) sulla dimora, il caro affitti e l’istruttoria pubblica sul diritto all’abitare, temi sui quali si trovava sul versante opposto rispetto a quello del neosindaco.

«È una nuova generazione, orgogliosa delle diversità ma capace di metterle in gioco in un progetto condiviso: non si tratta di una alleanza in provetta ma di qualcosa è che è maturato nel dialogo tra i protagonisti» dice Elly Schlein, che da vicepresidente in Regione ha in qualche modo anticipato il nuovo corso. Quando il vento era contrario. Solo due anni fa, alla fine del 2019, quando cominciava la campagna elettorale per le Regionali, la narrazione era infatti opposta: sembrava che il modello rosso fosse finito, e che la Lega di Matteo Salvini sarebbe stata capace di prendere tutto. Invece la coalizione costruita attorno a Stefano Bonaccini ha retto, ha vinto anche grazie a Coraggiosa e alle Sardine. E, adesso, ecco arrivare quella che è stata già soprannominata la formula di «Bologna Felix».

Lontanissima da quella città che, cinque anni fa, elesse Virginio Merola con un risicato 50,7 %, al secondo turno, e che annaspa da ancora prima. Racconta Clancy: «Il Pd che c’era a Bologna fino a un paio d’anni fa era arrogante ed egemone, guardava ancora ai moderati, al centro, ai grandi poteri della città: e su questo c’è ancora molto che va cambiato, non siamo certo arrivati alla rivoluzione», spiega. «Però allora non si interrogava proprio sull’uscita a sinistra, si faceva rappresentare dalla legge Minniti-Orlando sulla sicurezza, i daspo urbani, i fogli di via, l’idea di criminalizzazione della povertà e di chi protesta molto tipica di una declinazione di destra». Poi si è avviata quella che Clancy si guarda bene dal chiamare rottamazione («da Renzi mi separa tutto»), ma che è per lo meno un nuovo corso: fondato, per quello che riguarda la sinistra, su un processo di coinvolgimento e partecipazione diretta, dal basso, delle realtà territoriali, che per un quinquennio non si è mai stancata di intercettare. Mentre cominciava, parallelo, il nuovo cammino di Lepore, sia nell’ascolto della città che nella selezione “a sinistra” di candidati e programmi. Percorso di cucitura complesso, molto più accidentato di quanto non paia ora, intrecciato a tutti i livelli e ovviamente anche nella piena ombra, come ha fatto per mesi Igor Taruffi, 42 anni, consigliere regionale di Coraggiosa, con interminabili telefonate su e giù per la Porrettana e che qui ricordiamo a simbolo di tutti i tessitori ignoti. E fatto anche di modalità nuove, come quello della costruzione collettiva del percorso. La sardina Mattia Santori, che dopo una lunga incertezza ha infine corso col Pd (e ora punta a un assessorato), dice che l’antidoto alla tossicità del partito sta appunto nella contaminazione e nel coinvolgimento: «Lo ha dimostrato benissimo anche l’esperienza di Coalizione civica. Ora la responsabilità del Pd è riconoscere che siamo persone con cui si può costruire una visione, con cui creare un nuovo contenitore. Perché si tratta di un partito forte sull’amministrazione e anche sui contenuti, ma debole sul fronte della community». E che qui ha fatto un balzo in avanti: «Abbiamo vinto senza Calenda, senza Renzi, e senza Base riformista. Siamo insieme un laboratorio pratico e un’agorà. Mentre di solito hai partiti a tasso rigenerativo zero, dove si aggirano sopravvissuti che dopo dieci anni di militanza si affacciano nel mondo dei grandi sperando di avere un coltello più lungo degli altri».

Un contributo determinante a tutto ciò è arrivato, ed è per certi versi un paradosso, da Isabella Conti. Candidata alle primarie da Matteo Renzi per sparigliare il campo, a mo’ di Giorgio Guazzaloca di Italia Viva, la sindaca di San Lazzaro di Savena (un luogo tipo Svizzera del bolognese, dove è nato fra l’altro anche il grillino Max Bugani), divenuta nota per essersi messa con coraggio contro le cooperative e a fermare il progetto della cosiddetta «colata di Idice», ha fatto da forte elemento di polarizzazione e semplificazione del quadro. Da un lato, infatti, la sua presenza ha compattato la sinistra, scoraggiando altre candidature alle primarie; dall’altro ha consentito di regolare i conti nel Pd, di mettere in chiaro, per tempo, quali fossero i rapporti di forza. Il tutto secondo l’antico adagio prodiano per cui, «il sangue deve scorrere lontano dalle urne». Il sangue? Descrizione terribilmente scorretta, per il gusto sobrio dell’oggi: «È stata una meravigliosa campagna, siamo tornati a parlare di politica, di temi, un momento bellissimo», dice infatti soave Conti, sin qui per la verità piuttosto abile e spietata, sia nel prendere il 40 % alle primarie (persino danneggiata dall’ombra di Renzi, spiegano gli osservatori della sinistra-sinistra), sia nello stringere un minuto dopo l’accordo con Lepore, suo compagno di scuola e di lotte ai tempi del liceo Galvani: «Ed era lui quello moderato, io sono sempre stata di sinistra», specifica lei, che sembra sentirsi piuttosto stretta nella definizione di «renziana». «Sono cresciuta nella disciplina di partito, credo nella lealtà e penso che essere di sinistra oggi significhi pensare a come difendere anche i diritti dei penultimi, oltreché quelli degli ultimi: è l’unico vero antidoto alla seduzione di chi dice “prima gli italiani”», spiega. Ritiene anche lei che questo possa essere il punto di partenza di un nuovo centrosinistra «un progetto serio e di spessore», è per il momento abbastanza fredda nei confronti dei Cinque Stelle, rispetto ai quali si sente all’esatto opposto: «Faccio parte di chi per anni ha dato la cera e tolto la cera nel partito e sul territorio, i Cinque Stelle nascono svilendo quei percorsi e Conte, che ha firmato i decreti Salvini e la cui conversione è recente, non è nemmeno un politico: perché per esserlo ci vuole vocazione, militanza, esperienza». Quella che insomma a Bologna abbonda. L’essenziale, dice Clancy, «è costruire dal basso: creare connessioni, coinvolgere, è il contrario che fare cartelli, ciò che purtroppo ho visto fare alla sinistra in questi anni, con operazioni non troppo convincenti». Chissà se a Roma prendono appunti. 



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di Susanna Turco
espresso.repubblica.it
2021-10-19 13:38:00 ,

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