Mezzogiorno, 9 luglio 2022 – 09:27
di Paolo Macry
«Tutto ciò che sindaci e presidenti di Regione possono fare per allargare le maggioranze in vista delle politiche, lo facciano, li aiuteremo noi», dichiara il neo-commissario del Pd campano Francesco Boccia, democrat di lungo corso, antirenziano, dalemiano, zingarettiano, convinto sponsor del matrimonio con il M5S, antico sodale del «governatore» Emiliano. E cosa significhi in concreto quell’invito ad allargare il campo del centrosinistra è presto detto. «Le liste personali devono continuare a farsi», spiega senza tanti complimenti Boccia. Si sta rivolgendo a De Luca e a Emiliano. È la benedizione — da parte del Nazareno — del metodo che ha portato e riportato De Luca ed Emiliano alla presidenza della Campania e della Puglia, cioè delle regioni che con i loro dieci milioni di abitanti (osserva Simona Brandolini) hanno nelle proprie mani niente di meno che l’esito delle prossime politiche. Qui si vince o qui si perde. Il problema è che il metodo cui si riferisce Boccia, quello sperimentato con successo da De Luca e da Emiliano, consiste nella moltiplicazione di liste cosiddette «civiche», cioè di grappoli di voti della più svariata provenienza politica e ideologica, di interessi per lo più a scala locale che spesso fioriscono spregiudicatamente all’ombra delle risorse pubbliche, di accordi con una quantità di micronotabili collocati al di fuori e anzi in esplicita concorrenza con il Pd. Un metodo di raccolta a strascico del consenso che, con ogni evidenza, asseconda, utilizza e approfondisce la crisi dei partiti. Che finisce per annientarli. Che ne fa i morti sacrificali (sebbene non incolpevoli) dei leader pigliatutto. E basti ricordare come nel 2020, mentre De Luca ed Emiliano venivano rieletti trionfalmente alla guida delle loro regioni grazie a quel rosario interminabile di liste «civiche», il Pd raggranellò in Campania e in Puglia la miseria del 16,9 e del 17,2 % dei suffragi. Tanto perché fosse chiaro chi comanda chi.
Eppure è questa e soltanto questa la «filosofia» con la quale la sinistra sembra voler affrontare il passaggio decisivo delle politiche della prossima primavera. Quanto meno nelle terre del Sud. È questo senza ombra di dubbio il ruvido messaggio di Boccia, che Letta ha cercato semmai di edulcorare, ribadendo il tema delle alleanze tra partiti, ma di certo non ha smentito (quel Letta, sia detto tra parentesi, che, sollecitato da un gruppo di intellettuali critici, aveva promesso di intervenire personalmente sulle modalità autocratiche del potere deluchiano). E sarà pur vero che il vascello del Pd rischia di incagliarsi nelle secche del collasso grillino e della scissione dimaiana. Sarà pur vero che Conte da «forte punto di riferimento di tutti i progressisti» si rivela ogni giorno che passa più inaffidabile. Sarà pur vero che il favoleggiato «campo largo» si sta liquefacendo come neve al sole. E tuttavia appare sorprendente — o soltanto insufficiente — che si possa pensare ad una frettolosa sostituzione della fallimentare strategia giallo-rossa con il modello trasversale e clientelare delle liste «civiche». Sarebbe l’ennesima occasione persa da una sinistra incapace di leggere adeguatamente lo stato dell’arte, cioè gli orientamenti — o meglio il disorientamento — dell’opinione pubblica. Una sinistra con le mani bucate. Una sinistra dissipatrice. Dopotutto, per restare alla Campania e a Napoli, parliamo di territori che mancano di solidi partiti alternativi come ve ne sono invece nel Nord, che nel 2018 hanno espresso i propri umori e malumori incoronando il M5S con percentuali bulgare, che da tempo registrano percentuali di astensionismo poco meno che patologiche. Aree di forte disagio sociale e culturale, ma anche di fragilissima rappresentanza.
Parliamo insomma di un terreno straordinariamente vergine, praterie di cittadini senza patria politica (l’elettorato grillino deluso), praterie desertificate dalla latitanza della destra moderata e sociale (un fenomeno diventato cronico all’indomani dell’esperienza Caldoro), praterie di popolo da recuperare alla partecipazione politica, cioè da portare alle urne. Ebbene, che un partito come il Pd, al momento il più solido tra gli alleati della coalizione draghiana, non tenti neppure di costruire un’offerta politica — ma anche culturale e valoriale — appetibile, convincente, aggiornata ai tempi, che scarti la stessa possibilità di ricostruire il campo del riformismo, del welfare, del mercato competitivo, dell’innovazione ambientale, che rinunci cioè a conquistare quelle sconfinate praterie preferendo rifugiarsi all’ombra dei cacicchi meridionali, tutto ciò sembra a dir poco rinunciatario. Segnala la profondità di una crisi nel rapporto tra politica e società che la stagione populista ha aggravato oltre ogni limite e che il metodo localistico-trasversale delle «civiche», con i suoi rozzi strumenti, rischia di portare a compimento ultimo, finendo per minare la stessa macchina della democrazia. Si potrebbe obiettare che ogni generalizzazione ha le gambe corte. Che certe debolezze politiche riguardano assai più il Mezzogiorno del resto del paese. Vero, ahimè. Dopotutto anche i «governatori» settentrionali più autonomi dai rispettivi partiti, anche i Fedriga, gli Zaia, i Bonaccini, presentano caratteri molto diversi da un De Luca o da un Emiliano, hanno la forza di elaborare proposte alternative alla linea dei partiti cui afferiscono, esercitano una critica propositiva al rapporto tra centro e periferia (qualunque cosa si pensi dell’autonomia differenziata). Sembrano leader politici più che collettori di voti pro domo sua. Rappresentano territori e popolazioni, più che il civismo farlocco delle «liste». A confrontarli con i cacicchi di abitazione nostra, si direbbe che vivano in un altro paese.
9 luglio 2022 | 09:27
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