Il Ritorno del Re compie vent’anni e questo mi fa, ci fa, sentire molto vecchi. Ma più ancora, fa sentire il cinema molto vecchio, al netto della risalita recente di film in grado di proporsi come evento, come momento emotivo collettivo. La realtà è che usciti dalla sala, consci che il viaggio che ci aveva offerto Peter Jackson era finito, ci sentimmo tutti più tristi, più poveri, come svuotati. Questo è forse l’indizio più importante di quanto la Trilogia de Il Signore degli Anelli sia stata in grado di creare qualcosa di unico, di irripetibile, e quanto questo film (al netto di qualche piccolo difetto) rappresenti dopo un ventennio, un patrimonio comune di inestimabile valore.
L’ultimo tassello di una trilogia unica nella storia
Con Il Ritorno del Re Peter Jackson si trovò di fronte ad una fatica da Ercole: curare la post-produzione di tutto ciò che aveva girato tra il 2001 e 2002, in un iter creativo che ancora oggi rappresenta una delle più grandi sfide cinematografiche di tutti i tempi. Il fatto che il montaggio definitivo sia stato terminato ad un mese solamente dall’uscita in sala, rende l’idea della dimensione pachidermica del girato da Jackson, togliendo ogni argomentazione a chi ha visto nelle sue Director’s Cut una mera opera di commercializzazione. La quantità di scene tagliate dalla versione cinematografica qui si nota molto di più che negli altri due film, il che ha reso a volte il ritmo forse non così fluido. Ma non si può non riconoscere che Jackson riesce dove tanti altri, in saghe e anche universi cinematografici venuti dopo, con dietro ben altro supporto e mezzi, hanno fallito: darci un finale vero, autentico, compiuto e armonioso dal punto di vista narrativo.
Il tutto naturalmente unendo (come suo solito) l’amore per il cinema del passato (così come per i b movie e il cinema di genere) con la capacità di innovare, di stupire con una messa in scena visiva che qui, più ancora che ne Le Due Torri, riportò il concetto di kolossal cinematografico al centro dell’esperienza cinematografica per il grande pubblico. Il Ritorno del Re aumenta rispetto alle versioni precedenti la complessità e maestosità di una messa in scena per la quale Jackson sarebbe stato nuovamente criticato da una fetta di fandom Tolkeniano, per l’eliminazione o modificazione di personaggi ed eventi. Lavoro di mediazione totale quello della Trilogia del resto, con un occhio saldamente rivolto alla mitologia in senso totale, non solo dell’autore. Con questo si intende anche quella lontana dalla religiosità, piuttosto creata dalla Storia, dall’interpretazione della stessa dalla letteratura, l’arte e la musica, di cui riecheggia l’eco per ogni singolo minuto.
Ed allora, ecco che ne Il Ritorno del Re disastro e vittoria si scambiano di posto mentre seguiamo Frodo, Sam, lo stupefacente Gollum di Andy Serkis, nel loro viaggio alienante verso Mordor. Questo film non ha forse da Elijah Wood un’interpretazione così convincente come in precedenza, anche per necessità di iter, ma compensano tutto un Sean Astin e un Serkis, capaci di porsi come simbolo della doppia faccia della moralità e della vita. Dall’altra parte c’è il fragore delle armi con Aragorn, Gandalf, Legolas, Gimli, che portano Re Theoden alla testa di quello che è e rimane il momento più epico della storia del cinema: la carica di cavalleria che chiunque, a qualunque età, ha sognato di poter cavalcare nei propri sogni ad occhi aperti. C’è n’è un’altra di carica, fatale e malinconica, ed è l’ennesima connessione che Jackson fa fare al suo racconto con la memoria storica di cadute e sconfitte narrate da poeti e quadri. Pipino canta e intanto si va a morire tra l’indifferenza, come a Balaclava o a Gettysburg, per il volere del potere.
La cavalcata meravigliosa con cui Jackson ci porta assieme a Gandalf in quella Minas Tirith sull’orlo del baratro è, ancor più che nell’assedio de Le Due Torri, il risvegliare la memoria delle grandi cadute, della fine di un’era. La città della Torre d’avorio è come la Constantinopoli di Costantino XI, Gerusalemme invasa dai crociati, Cartagine che fu grande potenza, tutte circondate da orde senza pietà. Howard Shore, completa un trittico che è stato (giustamente) indicato come la più grande colonna sonora di tutti i tempi, unica per raffinatezza, complessità. Pure in quelle note c’è la traccia di un legame profondo tra Il Signore degli Anelli e la saga dei Nibelunghi, e quindi Wagner, quel recupero costante di un tema da sviluppare con una diversità totalizzante, da connettere allo specifico momento narrativo. Il che ci conferma che ne Il Ritorno del Re, abbiamo un contenitore trasversale del racconto epico non solo cinematograficamente inteso.
Un film in grado di abbracciare l’epica narrativa in senso universale
Il male ne Il Ritorno del Re si pone con una molteplicità di forme, anche quella umana, con Denethor, folle e perduto come certi Imperatori o Re, come il “Macbeth” di Shakespeare che Jackson valorizza in modo assoluto. Il film ha un crescendo titanico, perfetto, a tratti si avverte una tensione incredibile. “Non voglio trovarmi in una battaglia, ma aspettare sull’orlo di una che non posso evitare è ancora peggio” confessa Pipino a Gandalf, mentre il respiro prima del grande balzo del Negromante Re si materializza di fronte a Frodo, Sam e Gollum, in una visione da incubo norreno. Già, Gollum. Al di là della resa visiva rivoluzionaria, è e rimane il personaggio chiave, con cui parlare della dannazione del potere, della distruzione dell’anima generata dalla cupidigia e la sua evoluzione qualcosa di terribile. La fine di tutte le cose è però anche l’inizio di tutte le cose, è il cambiamento che Jackson rende in modo perfetto e così facendo onora, nel profondo, Tolkien, la sua generazione tornata distrutta dalle trincee.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-12-17 05:50:00 ,