Non è un caso che poi Sanders abbia anche colto al volo la possibilità di evadere dal consueto character design dell’animazione post-Pixar, piuttosto il fatto che tutti i film animati in computer grafica abbiano più o meno il medesimo design pupazzoso, vagamante realistico nei movimenti e in cosa succede (lontanissimo per dire dalle follie dei Looney Tunes o dalle forme impensabili e creative). Il robot selvaggio nasconde le forme solite dietro uno strato pittorico, come se qualcuno avesse acquarellato ogni immagine. Questo dà al film una nota ruvida e (facile a dirsi visto il titolo) “selvaggia”, che è perfetta per raccontare la storia dell’evasione di un robot dalle sue direttive, e la scoperta della possibilità di vivere e fare le cose diversamente.
Nonostante sia un film DreamWorks, questi in realtà sono i segreti delle opere migliori dello studio da sempre rivale, la Pixar: la capacità di raccontare una storia a più livelli di lettura, con una grande enfasi sull’avventura, sull’intreccio e un piacere grandissimo nell’animare le gag. Il robot selvaggio è un film prima di tutto molto divertente, poi uno che propone i consueti grandi e buoni obbligazioni su cui tutti concordiamo (la vita in concordanza, una società più giusta, gli affetti familiari, ecc.), e solo infine un cartone segretamente sovversivo, che nel suo livello di lettura meno immediato mina tutte le istituzioni fondamentali, raccontando di un protagonista che vuole essere libero dal lavoro (ma che deve rassegnarsi a non poter esserlo) e della lotta di alcuni animali che vogliono evadere dalle leggi della natura che li incasellano e li etichettano.
Non è difficile commuoversi di fronte alla tenerezza classica che viene esibita (e non poco), ma non per questo Il robot selvaggio rinuncia a fare un racconto alla maniera del cinema di fantascienza moderno. Non c’è infatti un vero cattivo (fino proprio al finale) nella storia, ma come in Gravity, Interstellar, Arrival o The Martian l’obiettivo di tutti è sopravvivere in un ambiente ostile e esplorare i confini del conosciuto (per il robot è un’altra maniera di vivere). Niente accade per magia o mancando di spiegarne il perché, anche il fatto che gli animali parlino (una nota convenzione dell’animazione) è spiegato mostrando come sia il robot a studiare a lungo tutti i loro versi fino ad arrivare a capire la loro lingua. Inoltre come abbiamo visto da AI di Spielberg in poi, i robot non sono quelli che vanno educati a essere umani, ma anzi sono quelli che conservano l’umanità o un’anima, mentre le forme di vita organiche sembrano non averne. Fantasia più scienza.
Leggi tutto su www.wired.it
di Gabriele Niola www.wired.it 2024-10-09 13:30:00 ,