Matteo Salvini ha paura. Appena si veste da morigerata maggioranza e non da sbraitante opposizione, non si riconosce più. Detta così fa più spavento di “A sangue freddo” di Truman Capote: «Il villaggio di Holcomb sta sulle alte pianure di frumento del Kansas occidentale, un’area solitaria che gli altri abitanti del Kansas chiamano laggiù».
Quando Salvini ha paura telefona a Enzo Risso, il direttore scientifico di Ipsos, la multinazionale dei sondaggi che in televisione ha il volto rassicurante del presidente Nando Pagnoncelli. Il dottor Risso illustra a Salvini gli scenari captati da Ipsos, le tendenze, i distacchi, le previsioni. Pazienza, Salvini, porti pazienza: il gradimento per il governo di Mario Draghi è simile fra gli elettori di centrodestra.
Però Salvini ha paura. Ha paura dei consensi di Giorgia Meloni. Ha paura del sorpasso di Fratelli d’Italia. Ha paura di perdere il controllo della Lega. Quando ha paura alza la marcatura su Fratelli d’Italia, fa un tuffo liberatorio con le opposizioni e poi torna su in maggioranza ancora inebriato. Il premier l’ha capito: oscillare fa scricchiolare un governo di solide intenzioni. O ci state o non ci state. Il professor Draghi, un paio di settimana fa, nell’ufficio di Palazzo Chigi ha accolto la delegazione leghista con un severo rimbrotto. Era successo che, durante una mozione su Borsa Italia e la vendita a Euronext, i deputati del Carroccio avevano firmato il documento di maggioranza e poi avevano votato pure il documento di opposizione di Fdi con il tattico avallo del forzista Sestino Giacomoni. Draghi ha citato alla delegazione leghista l’episodio di Borsa Italia per descrivere una loro contraddizione, ma la stessa delegazione leghista era un condensato di contraddizioni annoverando al suo interno i capigruppo di Camera e Senato, il ministro moderato Giancarlo Giorgetti, il viceministro sindacalista di destra Claudio Durigon, il reggente del dipartimento economico Alberto Bagnai, noto per le sue posizioni contro l’euro.

Salvini e l’altra Lega, quella che non tollera i proclami di piazza, le sbandate sovraniste, le amicizie opinabili, convivono per reciproca convenienza. Salvini ha i suoi, però, che sono sempre più ostili agli altri. Andrea Paganella è il suo principale collaboratore. Paganella ha plasmato la macchina della propaganda leghista assieme a Luca Morisi. Gli amici che hanno inventato la cosiddetta “bestia” per i social, che poi era Sistema Intranet, una società in nome collettivo (snc) di Mantova. Adesso Paganella ha un contratto col gruppo di Palazzo Madama perché segue il senatore Salvini e presto ne otterrà un secondo col partito perché segue il segretario Salvini. Lo segue ovunque e, soprattutto, gli tiene l’agenda. Un tempo era un compito organizzativo. Oggi è un potere che dà fastidio e Paganella lo esercita con scarsa parsimonia. Il 29 marzo Salvini ha annunciato per il primo aprile una trasferta a Budapest per un incontro con gli ideologi della moderna estrema destra in Europa, il premier ungherese Viktor Orbàn e il premier polacco Mateusz Morawiecki. Paganella lo sapeva, come lo sapevano i fedelissimi che hanno partecipato al viaggio, il parlamentare europeo Marco Zanni e il responsabile esteri Lorenzo Fontana.
L’altra Lega non lo sapeva. E contestualmente i tedeschi della Cdu/Csu, il partito di Angela Merkel, hanno annullato l’imminente vertice di Monaco di Baviera con i leghisti capeggiati da Giorgetti. Non sono dettagli. Si intuisce che la Lega ha due visioni che significa avere due soluzioni per il futuro: destra europea di tradizione e di comando come quella del partito popolare oppure destra sovranista con i leghisti capofila. Già accade col gruppo Identità e Democrazia a Bruxelles gestito da Zanni.
In politica estera Salvini sbanda spesso. Non s’è mai compreso se per strategia o ingenuità. Ha abbracciato la causa russa di Vladimir Putin che gli vale la scomunica imperitura degli americani e poi di recente ha ferito lo zar di Mosca inneggiando alla libertà di espressione in difesa di Aleksej Navalnyj nel mentre disegna l’Europa con l’autoritario Orban, non proprio un campione di tolleranza. La più lunga conversione l’ha affrontata col Qatar della famiglia Al Thani e ancora non se n’è pentito. Nel 2017 il Qatar «finanziava e fomentava il terrorismo», nel 2018 ci andò in missione da ministro dell’Interno, nel 2020 la Lega si è astenuta sul patto di amicizia con l’Italia ispirato da Italia Viva e contestato da Fratelli d’Italia e nel 2021 si è rallegrato per la distensione dei rapporti fra Doha e gli odiati vicini della penisola del Golfo. Il Qatar è diventato un riferimento internazionale di Salvini.

Con l’amministrazione di Donald Trump aveva recuperato attraverso la mediazione di Giorgetti e le costanti intemerate contro la Cina, ma con Joe Biden non ha spazio né modo per clamorosi recuperi. In Europa Salvini rimane ai margini e sempre in cima alla lista degli inaffidabili, un marchio indelebile che gli impedisce, e ne è lucidamente consapevole, di ambire a cariche istituzionali di prestigio. Non ci rimugina. Quello che non sopporta, invece, è perdere aderenza con gli elettori, la gente, la folla, le case. Meloni è la sua ossessione. Fratelli d’Italia il suo tormento: lo provocano come per la sfiducia al ministro Roberto Speranza, lo incalzano nei territori arruolando ex consigliere leghisti, lo sfidano con un atteggiamento compiacente per Draghi. Insomma: lo snervano.
Fuori dai patri confini lo giudicano con disprezzo: non è importante, lo accetta. Dentro Salvini ha bisogno di essere osannato: è essenziale. Per rivendicare dentro la buona reputazione che fuori gli negano, si è messo a nutrire relazioni. Spesso si confronta con gli imprenditori che sostengono e frequentano la onlus brianzola Cancro primo aiuto. Lì ha tratto spunto per chiedere, per esempio, di aprire i centri commerciali anche il sabato e la domenica. E dopo che si è irrobustita l’amicizia con Alessandro Varisco, già amministratore delegato di Moschino passato a Twin-set, ha convocato una conferenza stampa al Senato per proporre stanziamenti alle imprese della moda che tutelano «una eccellenza italiana dimenticata». Non ha approfondito mai le dinamiche che portano alle nomine di Stato, ma ha custodito i contatti con alcuni dirigenti di Eni, con Fabrizio Palermo di Cassa depositi e prestiti e con Marco Alverà del gruppo Snam. Risso di Ipsos gli ha spiegato che deve presidiare il tema del lavoro che dopo la pandemia diventerà il tema dei senza lavoro e non logorarsi nel timore di farsi travolgere da Fdi.
Salvini deve insidiare le certezze del Pd di Enrico Letta e contendergli la paternità del governo Draghi. In questo momento di ricostruzione sanitaria, economica e sociale, la Lega non può permettersi di intralciare l’azione del governo, semmai deve ampliarla, cioè spronare Draghi a fare una cosa in più, a prolungare di un’ora il coprifuoco serale, mai una cosa in meno. Salvini se lo ripete ogni giorno scrutandosi allo specchio, ma se la Meloni strappa un like in più impazzisce e ribalta il governo, il partito e pure lo specchio. Questo è il prologo alle elezioni amministrative di ottobre. Salvini è concentrato sulle liste da compilare e le spartizioni fra gli alleati. Le urne sono fondamentali per sancire la guida della coalizione di centrodestra e di conseguenza quella di Salvini. L’altra Lega, quella che a volte lo subisce o almeno finge con molta professionalità, gli sarà fedele finché garantisce i risultati eccezionali che ha raccolto nell’ultimo lustro. Deve vincere da Salvini senza essere troppo Salvini. Per questo ha paura. Di se stesso.