In 50 anni abbiamo perso il 69% della fauna selvatica

In 50 anni abbiamo perso il 69% della fauna selvatica

In 50 anni abbiamo perso il 69% della fauna selvatica



Da sola questa cifra dovrebbe portare a chiederci “cosa stiamo facendo a questo Pianeta?”: dal 1970 a oggi le popolazioni dei vertebrati sulla Terra, come pesci, anfibi, rettili, mammiferi o uccelli, sono crollate in media del 69%.
 

Osservando da vicino le tracce di questo terrificante declino, si trovano impronte chiare: quelle dell’uomo e delle sue attività, complici delle emissioni climalteranti in atmosfera e del devastante impatto che l’agricoltura ha avuto finora sulla biodiversità.

A tracciare un quadro delle difficoltà di milioni di specie e della crisi biologica in corso è il “Living Planet Report Wwf (LPR)”, studio realizzato a livello globale dal Wwf e pubblicato ogni due anni, per dare conto di quanto sta accadendo alla fauna selvatica del Pianeta.

Il crollo delle popolazioni di fauna selvatica

Le cifre del 2022, con l’integrazione di preziose statistiche tradotte e arrivate da quel Brasile che ospita l’Amazzonia, descrivono i cambiamenti avvenuti negli ecosistemi di tutto il mondo fra il 1970 e il 2018 grazie all’analisi dei dati del Living Planet Index (LPI) forniti nel rapporto della ZSL (Zoological Society of London).

 
Sono state studiate quasi 32mila popolazioni di 5.230 specie di vertebrati, indicando per esempio come soprattutto nelle regioni tropicali – tra le più ricche di biodiversità ma anche le più colpite dall’emergenza climatica – si è verificato un crollo nelle popolazioni animali. Impressionante il declino registrato in America Latina e nei Caraibi: qui le popolazioni di fauna selvatica sono diminuite in media del 94%. Nello stesso periodo, in Africa si è registrato un calo del 66%, mentre nell’area dell’Asia toccata dal Pacifico del 55%.

(Infografica a cura di Gedi Visual)

Fra gli animali più colpiti in assoluto dai cambiamenti e dall’impatto delle attività umane ci sono le popolazioni d’acqua dolce: sono calate dell’83% e si tratta del peggior declino di qualsiasi gruppo di specie, dovuto a perdita di habitat, pesca, barriere alle rotte migratorie (solo il 37% dei fiumi più lunghi di 1000 km rimane libero per l’intera lunghezza) e altre minacce.
 
Non va meglio ad alcune specie che popolano i mari: un esempio per tutte sono squali e razze, che scompaiono sempre più rapidamente, con le popolazioni diminuite del 71% negli ultimi 50 anni principalmente a causa di un aumento di 18 volte della pressione di pesca dal 1970.

Ma drammatiche sono anche le condizioni degli affascinanti delfini rosa di fiume dell’Amazzonia, le cui popolazioni sono crollate del 65% (tra il 1994 e il 2016) nella Riserva di sviluppo sostenibile di Mamirauá, oppure dei gorilla di pianura orientale con un declino stimato dell’80% (1994-2019) nel Parco nazionale di Kahuzi-Biega della Repubblica Democratica del Congo o ancora dei cuccioli di leone marino dell’Australia meridionale e occidentale, il cui numero è calato di due terzi tra il 1977 e il 2019.

Consumiamo come se avessimo due pianeti

Se si è arrivati a un tale declino delle specie è anche perché noi esseri umani sfruttiamo questo Pianeta come se ne esistessero due. L’impronta ecologica dell’umanità supera infatti la biocapacità della Terra, cioè la capacità dei suoi ecosistemi di rigenerarsi.
 

(Infografica a cura di Gedi Visual)

Se osserviamo l’impronta ecologica emerge che l’umanità sfrutta il Pianeta in eccesso per almeno il 75% (che equivale a utilizzare 1,75 pianeti) e questo “erode la salute della Terra e le prospettive dell’umanità stessa” ricorda il rapporto.
 
Se per esempio guardiamo all’uso del suolo che facciamo, il 60% è relativo all’impronta di carbonio e il 19% a quella dei terreni coltivati e da sole queste due cifre restituiscono l’impatto che abbiamo sul Pianeta (se invece osserviamo la nostra impronta a seconda delle attività è soprattutto per cibo 30%, abitazioni 22% e servizi 19%).
 

(Infografica a cura di Gedi Visual)

Analizzando quanto consumiamo sulla Terra a seconda della cittadinanza emerge poi come in alcune aree del globo sfruttiamo eccessivamente le risorse. Per vivere entro la capacità del nostro Pianeta l’impronta ecologica dell’uomo dovrebbe essere inferiore alla biocapacità (1,6 ettari globali a persona). Ci sono aree però, come Stati Uniti o Australia, dove l’impronta ecologica è superiore a 6,4 ettari globali, il che significa che la domanda dei residenti di cibo, aree urbane o altri fattori è quattro volte superiore a quella disponibile a persona.

Una società natura-positiva

Secondo il Wwf, che in Italia ha presentato il rapporto Living Planet oggi a Villa Lubin a Roma, è necessaria una immediata azione di trasformazione per invertire la drammatica perdita di biodiversità “che insieme all’emergenza del cambiamento climatico indotto dall’uomo minaccia il benessere delle generazioni attuali e future”.
 
Per farlo dobbiamo costruire una “società natura-positiva”, seguendo esempi che dal Costa Rica delle rinnovabili ai progetti di tutela di alcune zone dell’Africa indicano la via su come come limitare il riscaldamento globale a 1,5°C e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030.
 
Fra meno di due mesi ci sarà la conferenza Cop15 della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica (e prima ancora la Cop27 sul Clima), una opportunità “irripetibile per garantire un ambizioso piano globale che vincola tutti i governi a una serie di impegni comuni per fermare e invertire il declino della biodiversità” sottolinea il Wwf.
 
Per Marco Lambertini, direttore generale del Wwf internazionale, “alla conferenza sulla biodiversità  i leader avranno l’opportunità di reimpostare il nostro rapporto con il mondo naturale e di offrire un futuro più sano e sostenibile per tutti, con un ambizioso accordo sulla biodiversità globale che sia nature-positive, passando per esempio attraverso la trasformazione dei settori che causano la perdita di natura, e il sostegno finanziario ai Paesi in via di sviluppo”.  

Andrew Terry, direttore Conservazione e Politiche della Zoological Society of London, ricorda invece come “metà dell’economia globale e miliardi di persone dipendono direttamente dalla natura. Prevenire un’ulteriore perdita di biodiversità e ripristinare gli ecosistemi vitali deve essere in cima alle agende globali per affrontare le crescenti crisi climatica, ambientale e di salute pubblica”.
 
I problemi da contrastare sono crescenti: dall’uso che facciamo di suolo e mare all’inquinamento, così come l’avanzare delle specie aliene, il bracconaggio, la deforestazione e tutti gli effetti della crisi climatica. “Per invertire la perdita di natura e garantire un futuro più sicuro e sano per tutti è indispensabile dimezzare l’impronta globale di produzione e consumo entro il 2030. Abbiamo bisogno di trasformare radicalmente la nostra cultura e la nostra società”, dice il presidente di Wwf Italia, Luciano Di Tizio

“In Italia il Wwf ha avanzato proposte concrete che ci auguriamo che il Parlamento che si insedia oggi e il governo che seguirà mettano al centro dell’agenda: entro un anno serve una legge sul clima, una per contrastare il consumo del suolo ed un Codice della Natura per razionalizzare tutte le norme a tutela della nostra biodiversità” conclude il presidente del Wwf Italia.



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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2022-10-13 09:11:39 ,

www.repubblica.it

[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2022-10-13 09:11:39 ,
Il post dal titolo: In 50 anni abbiamo perso il 69% della fauna selvatica scitto da [email protected] (Redazione di Green and Blue) il 2022-10-13 09:11:39 , è apparso sul quotidiano online Repubblica.it > Green and blue

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