Jakarta – La sede di Purple Code non si trova su Google Maps. “Per ragioni di sicurezza”, mi spiega Eni quando mi manda l’indirizzo. Parliamo su Whatsapp, anche se lei solitamente usa Signal. Quando arrivo nel loro spazio, a nord di Jakarta, la capitale dell’Indonesia, la trovo impegnata assieme alle sue compagne Efi e Dinda a preparare un incontro sulla sicurezza digitale che terranno online a breve.
Purple Code, di cui Eni, Efi e Dinda fanno parte, è un collettivo di donne e ragazze nato nel 2015 a Jakarta, per volontà dell’attivista Dhyta Caturani e ha come obiettivo principale quello di contrastare la violenza di genere online (Ogbv). Lo spazio luminoso nel quale mi trovo ha però vita più breve e per i due lunghi anni della pandemia è dovuto rimanere chiuso. “Da quando abbiamo riaperto però siamo diventate un punto di riferimento per donne e persone queer interessate a capire come lo spazio digitale e quello reale siano strettamente legati – mi spiegano – Qui possiamo incontrarci e parlare dei temi che riteniamo importanti e urgenti come l’egemonia culturale e l’autoritarismo che impattano le nostre vite e impariamo a difenderci da qualunque tipo di attacco o abuso”.
Manifestazioni femministe e minacce online
“Ho sperimentato sulla mia pelle come internet possa diventare uno spazio di violenza contro le donne – mi racconta in videochiamata Dhyta Caturani dopo la mia visita a Purple Code – quando nel 2010, dopo aver organizzato una manifestazione contro un funzionario governativo che incolpava pubblicamente una vittima di stupro per aver indossato una minigonna in metropolita, iniziai a ricevere minacce del tipo: “so dove abiti”, “ti verremo a violentare” e ho provato una paura vera, come se me l’avessero detto in faccia mentre camminavo per strada”.
In seguito a questo episodio, Dhyta inizia a confrontare la sua esperienza con quella di amici e compagni attivisti uomini e si rende conto che, sebbene anche loro vengano attaccati, il tipo di insulti che ricevono non sono mai riferiti al corpo e al genere. “Ho iniziato a farmi delle domande e a studiare cosa accade dietro allo schermo. All’epoca non avevo le parole per descrivere ciò che sentivo, ma incontrando attiviste femministe di altri paesi che condividevano il mio stesso vissuto, ho capito che si trattava di vera e propria violenza”, racconta.
La nascita di Purple Code
Dall’urgenza di dare un nome a un fenomeno nuovo e avere gli strumenti per contrastarlo, nasce Purple Code. “Misi insieme un gruppo di amiche femministe interessate a capire, studiare e crescere insieme e nel maggio del 2015 abbiamo subito organizzato il primo hackathon a Jakarta con una tre giorni dedicata a fornire strumenti di digital security a donne e persone queer”, ricorda Dhyta. E aggiunge: “Per difendere e proteggere me stessa avevo infatti scoperto che i software di cui avevo bisogno erano fuori dalla portata della maggior parte delle persone in Indonesia, e in particolare delle donne e dei gruppi emarginati. Ottenerli e utilizzarli presupponeva livelli di privilegio che probabilmente non erano stati considerati dagli sviluppatori, come la conoscenza dell’inglese, per esempio”.
Tra le informazioni di base che Caturani e gli altri formatori condivisero durante quei tre giorni e che Proseguono a sottolineare, ci sono cose semplici ma spesso trascurate come l’importanza di creare password complesse con più di 20 caratteri e non condividerle mai con altri, fare attenzione prima di cliccare su un collegamento, scaricare contenuti o condividere un post e soprattutto quando si attiva la funzione di geolocalizzazione. “Il problema – riflette Dhyta – non è che le persone non siano consapevoli dei rischi dello spazio digitale ma che non se ne preoccupino. In molti dicono: “non ho niente da nascondere”, ma così si normalizza la sorveglianza e si autorizza chi ci governa a limitare le nostre libertà”.
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di Claudia Bellante www.wired.it 2024-01-08 06:00:00 ,