Il contributo di Marco Pitò alla rubrica di testimonianze dalla Cop26 di Glasgow. La redazione di Green&Blue è pronta a ricevere contributi, anche multimediali, da Glasgow. Mandate video, foto, testi a redazione@green&blue.it
Ci risiamo… ecco l’ennesimo negoziato mondiale sul clima, il ventiseiesimo per la precisione. Agli occhi dei non addetti ai lavori, questi innumerevoli incontri sembrano incomprensibili: perché i governi di tutto il mondo continuano a negoziare se hanno già raggiunto un accordo nel 2015 e in pratica nessuno di loro lo sta rispettando?
L’assurdità di ciò è palese anche a me, studente di relazioni diplomatiche e internazionali che quest’anno si è recato a Glasgow per osservare più da vicino i negoziati di cui ha tanto sentito parlare tra i banchi universitari. Mi sembra assurdo sì, ma per nulla inaspettato. Per spiegarmi questo fallimento parto dalle basi, concedendomi un minimo di sintesi e semplificazione.
Gli esseri umani sulla terra non sono presenti da sempre: la loro presenza è stata possibile solo grazie a una serie di delicati equilibri che la natura ha generato in centinaia di milioni di anni. Questi ci hanno permesso di evolverci e costruire le nostre società. Con l’aumentare della cittadinanza e della complessità dei nostri sistemi, abbiamo istituito dei patti sociali e creato dei governi per guidare le nostre società. Il patto sociale sancisce che i nostri governi si occupano di garantirci sicurezza, benessere e prosperità in cambio di tanti privilegi, soldi, della nostra obbedienza e partecipazione alla vita del paese.
Tuttavia, gli equilibri naturali che supportano la vita sulla terra si stanno incrinando, tantissime specie si sono già estinte e una su otto è a rischio estinzione nel breve periodo. Questo è dovuto alla sete di potere e profitto da parte di alcuni che ha portato ad uno sfruttamento sconsiderato delle risorse, alla creazione di bisogni indotti e ad un consumo compulsivo.
I governi non solo non stanno facendo a sufficienza per limitare la distruzione degli ecosistemi che permettono la vita sulla terra, ma alcune volte sono anche ricattati, collusi, se non proprietari, delle aziende più responsabili di ciò. Non c’è quindi da stupirsi se, invece di cercare delle soluzioni a questi problemi insieme a coloro che più ne pagano le conseguenze, essi le cercano – o fingono di farlo – insieme ai più grandi inquinatori.
Cento aziende sono responsabili del 71% delle emissioni globali e hanno dominato l’arena della diplomazia internazionale. Questo nonostante i cacofonici proclami dei governi sin dal primo summit della terra nel 1992 nel quale osannavano l’essenziale coinvolgimento di giovani, donne, popoli indigeni e in generale comunità oppresse.
Per la ventiseiesima Cop era stato finalmente annunciato che i grandi inquinatori non avrebbero ricevuto alcun ruolo ufficiale. Nel mio treno per Glasgow però, leggevo un’inchiesta del Times che mostrava che hanno comunque trovato modi per sgattaiolare dentro e influenzare i negoziati. Una volta arrivato a Glasgow ho poi sentito che Eni, la multinazionale del fossile partecipata al 30% dallo stato Italiano, aveva in programma un incontro di networking per presentare i suoi “successi” climatici; l’ennesimo tentativo di greenwashing.
Si tratta di greenwashing poiché nonostante tutte le sue pubblicità e pennellate di verde, Eni continua ad estrarre circa 2 milioni di barili di petrolio al giorno, destina il 77% dei suoi investimenti al fossile e al 2022 vuole scavare 140 nuovi pozzi di petrolio.
Da giovane ventiduenne in questo particolare periodo storico non riesco a starmene fermo. Non è un’opzione restare a guardare mentre la nostra abitazione va in fiamme, quando chi dovrebbe spegnerle da un lato finge di farlo e dall’altro è negligente o colluso con chi getta benzina sul fuoco. Ed ecco che così inizia la mia prima giornata a Glasgow: mi registro all’incontro di Eni, gentilmente ma in modo assertivo prendo la parola e inizio a scandire dati e numeri sull’operato dell’azienda. Nel frattempo altri attivisti srotolano uno striscione e poi usciamo ordinatamente intonando cori e cantando. Non prima però di aver letto una lettera di Dipti Bhatnagar, un’attivista del Mozambico:
“la sete di gas dell’Eni a Cabo Delgado ha comportato che intere comunità abbiano perso la loro terra e siano state sfollate dalle loro case. L’area è ora nel mezzo di un violento conflitto, alimentato dall’industria del gas, ma l’Eni non si assume alcuna responsabilità. Invece sparge sciocchezze sul presunto sviluppo che l’industria del gas porterà, anche se la storia ha dimostrato che, quando le compagnie estrattive arrivano in Africa, tutto questo non si verifica”.
* Marco Pitò, 22 anni, è attivista di Extinction Rebellion Italia.
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2021-11-05 22:10:57 ,
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