Ma queste forme di sorveglianza non si limitano ai check point. Come scrive Amnesty International, Hebron è stata trasformata dalle autorità israeliane in una vera e propria smart city, con telecamere montate ovunque, dai lampioni ai tetti degli edifici, che si traducono in un vero e proprio apartheid per la gente palestinese. Solo nel posto di blocco 56 nel quartiere di Tel Rumeida sono stati individuati almeno 24 dispositivi di sorveglianza audio-visiva e altri sensori. Dalle testimonianze raccolte emerge come alcuni soldati israeliani abbiano messo in piedi un vero e proprio gioco: una sorta di fanta-sorveglianza dove vince chi identifica più volti nuovi dei palestinesi, andando a rimpinguare il già enorme archivio nazionale.
La situazione non è migliore a Gerusalemme Est: qui Israele gestisce una capillare rete di migliaia di telecamere a circuito chiuso in tutta la Città vecchia, nota come Mabat 2000. Secondo la mappatura di Amnesty International in media si trova una telecamera ogni cinque metri. E il numero è in costante aumento, traducendosi in una limitazione della libertà di movimento ma anche della libertà di espressione e manifestazione, dal momento che chi partecipa alle proteste nell’area viene spesso identificato e punito attraverso queste tecnologie invasive.
L’apartheid dei palestinesi
Come denuncia Amnesty International, Israele ha imposto nei confronti del popolo palestinese un sistema di oppressione e dominio basato sull’appropriazione delle terre, la frammentazione territoriale, la segregazione e il diniego dei diritti sociali ed economici di base. La sorveglianza di massa esercitata attraverso i dispositivi Red wolf, Wolf pack e Blue wolf sono un pilastro di tutto questo, traducendosi in un vero e proprio apartheid. Ma non è l’unico caso di uso indiscriminato delle tecnologie per sorvegliare il popolo palestinese.
Secondo un’inchiesta dell’organizzazione Front Line Defenders, le autorità israeliane avrebbero usato il software di sorveglianza Pegasus della società Nso Group, per controllare i telefoni cellulari di attivisti palestinesi per i diritti umani, poi accusati di terrorismo. Una sorveglianza continuativa nel tempo, che ha permesso di controllare da remoto anche la fotocamera e il microfono e che ha sollevato le critiche da parte dell’Onu. Secondo le rivelazioni di un whistleblower all’interno dell’esercito israeliano, Tel Aviv è in grado di ascoltare le conversazioni telefoniche di ogni abitante della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Ma la sperimentazione di nuove tecnologie nei territori palestinesi sarebbe andata ben oltre la sorveglianza: secondo l’organizzazione Youths Against Settlements, Israele starebbe testando nuove armi di ultima generazione telecomandate nei checkpoint militari dei territori occupati come nell’area di al-Khalil.
Il boom degli ultimi anni dell’industria tecnologica israeliana è connessa a tutto questo. Un terzo delle startup globali nel campo della cybersecurity si trovano in Israele e le aziende operative nel settore sono migliaia. Una vera e propria Silicon Valley, che cresce anche grazie, o a causa, della sperimentazione quotidiana delle sue creazioni su un territorio e popolo intero, quello palestinese.
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di Luigi Mastrodonato www.wired.it 2023-05-05 13:02:20 ,