Dal festival Offscreen di Bruxelles, 8-26 settembre 2021, che da pochi giorni ha chiuso i battenti, spicca la pellicola Jallikattu, un allucinante capolavoro del cinema indiano.
La corrida umana in salsa indiana
La parafrasi, cinematograficamente declinata, della celebre espressione latina del commediografo Plauto tratta dall’Asinaria è quasi d’obbligo per lo spettatore che si sia, per sua fortuna, imsconfitto nell’opera filmica Jallikattu. La pellicola non è una primizia, ma è già “antica” di due anni: uscita nel 2019, l’opera di Lijo Jose Pellissery ha già fatto il giro dei più prestigiosi festival di cinema indipendente, per poi atterrare al festival più eterodosso della scena brussellese, Offscreen, quest’anno dedicato all’eco-horror. Raramente un film avrebbe potuto sposarsi così perfettamente alla tematica. Basato sulla short story Maoist dello scrittore S. Hareesh, che ha collaborato anche alla sceneggiatura, Jallikattu, non senza una necessaria dose di humor, si spinge nei meandri del parossismo ferino.
In realtà il titolo da cui è tratto il film è mutuato da una tradizionale pratica indiana, conosciuta con il nome autoctono di eru thazhuvuthal, che potrebbe essere assimilata alla nostra occidentale corrida e che è altrettanto contestata e insanguinata. Da millenni, solitamente a gennaio, mese dedicato alla celebrazione del raccolto e degli animali, un folto gruppo di uomini si mette insieme intorno ad un toro, cercando di aggrapparsi alle corna e restare in equilibrio sulla groppa il più a lungo possibile, senza uccidere la bestia (o almeno non nell’immediato). Più che una lotta contro l’animale, Jallikattu si configura come una lotta alla supremazia umana, nello sfoggio delle qualità, prettamente maschili e profondamente triviali, che potrebbero riassumersi nel termine machismo. La frenesia è talmente convulsa da spingere gli uomini ad atti di vandalismo incontrollato e incontrollabile. Esattamente quello che il film mostra e fa vivere, come esperienza fisica e visiva, allo spettatore.
La tauromachia cinematografica
La trama sembra allontanarsi lievemente dallo svolgimento “consueto” di questo rituale tradizionale: in un villaggio indiano, il macellaio Kalan Varkey, ossimoricamente “elitario” e capitalista, si ingrazia la casta con i tagli di carne più preziosi e succulenti. Tagli corrotti e insanguinati, allegoria brillante di una struttura feudale ancora profondamente radicata nel tessuto sociale e politico. Fino all’avvento della furia animale, un bufalo a briglia sciolta, che sovverte tutti gli equilibri e fa emergere i più radicati malesseri e le più depresse ingiustizie sociali. In realtà il povero bufalo, di fronte all’impulsiva furia umana, sembra una docile bestia da cortile: tra duelli all’ultimo sangue, lanci di armi, incendi, corse sfrenate, bastonate, blocchi della viabilità ed impressionanti piramidi umane, la presunta tauromachia si trasforma in una devastante degenerazione umana.
Gli istinti primordiali degli abitanti del villaggio raggiungono punte di violenza fisica e verbale difficilmente descrivibili, ma che sono cinematograficamente riprodotti in una caotica e avviluppante dimensione visiva e sonora fatta di pause, riprese, silenzi e battiti assordanti. Nell’economia narrativa del film la vera bestia, in realtà, è l’uomo: nella pretesa utopica di poter controllare la natura e dominare i propri impulsi, l’essere umano si riduce esso stesso alla dimensione più bassa e selvaggia della specie.
Un film dalla sublime energia visuale e corporea, allo stesso tempo profondamente allegorico nelle intenzioni narrative ed estremamente dinamico nella conduzione filmica libera e spregiudicata.
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di Serena Pacchiani
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2021-09-30 08:30:00 ,