Colpisce l’insistenza di volgarità in sequela, dagli innumerevoli “fuck” ai vari insulti che i personaggi si rivolgono (“testa di c**”, “ti faccio un c** come una capanna” e simili amenità). Come se il cameratismo non fosse abbastanza, via di schicchere sulle orecchie, sputi e pisciate di gruppo con tanto di battutacce sui membri. Ne sentivamo il bisogno? L’interrogativo monta e diventa sempre più forte man mano che il film avanza.
Anche la descrizione dei personaggi femminili lascia molto a desiderare: le gentil sesso del film o sono materne, vale a dire servono e danno da mangiare al protagonista come la locandiera interpretata da Luisa Ranieri, oppure sono muse ispiratrici come Beatrice Hastings (Antonia Desplat). In entrambi i casi non hanno lo stesso spazio degli uomini, che in quel mentre bevono, vanno in guerra, sognano, creano e distruggono. Tutto raccontato in superficie, con poco approfondimento e spessore narrativo.
Il momento più interessante e degno di nota è senz’altro quello in cui entra in scena Al Pacino. Interpreta il cinico collezionista americano Maurice Gangnat che distruggerà ogni certezza all’artista, non riconoscendone il valore e la maturità artistica. Sarà l’inizio della discesa agli inferi di un genio raccontato in tutta la sua sregolatezza, nei suoi eccessi e nei deliri con tanto di spettri mortiferi. Johnny Depp dimostra di possedere ancora uno stile visionario, ma la sua è un’opera magmatica che gli sfugge continuamente di mano e che non riesce a governare mai fino in fondo. Resta la sensazione di un’occasione mancata, ma anche l’apprezzabile intento di ricordare quegli artisti, come Modigliani, riconosciuti grandi solo dopo la loro dipartita.
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di Claudia Catalli www.wired.it 2024-10-26 20:30:00 ,