Jurassic Park rappresenta una delle scommesse più rischiose della storia del cinema. Niente e nessuno, neppure Steven Spielberg poteva garantire che quel film, ad oggi non solo uno dei più amati ma anche dei più rivoluzionari di sempre, avrebbe avuto successo. Eppure, dopo tre decenni, è un dato di fatto pacifico che quella storia a metà tra avventura e terrore puro, in mezzo ai grandi rettili del passato, sia diventata un oggetto semantico che ha pochi pari. I perché sono tutt’altro che banali e spesso alquanto sorprendenti.
Quando l’impossibile si palesò davanti ai nostri occhi
Jurassic Park nella mente di Michael Crichton era nato per essere non solo un best-seller, ma un film di grande successo. lo scrittore sapeva che l’industria cinematografica era avviata verso il rinnovamento visivo, era pronta a rinnovare il concetto di meraviglia per il grande pubblico.
Uscito nel 1990, Jurassic Park fu un grande successo editoriale, ma già prima della pubblicazione scatenò un’asta selvaggia tra le majors per i diritti. La Warner e la Columbia puntavano su Tim Burton e Richard Donner, ma Crichton si lasciò convincere dal nome di Steven Spielberg fatto dalla Universal. Gli fu anche chiesto di collaborare con David Koepp alla sceneggiatura, che ovviamente si allontanò per molti aspetti dalla trama originaria, ma non nella semantica: quella di un’avventura che da regno dei sogni paradisiaci, diventava in breve un inferno fatto di suspense e paura. Ma soprattutto, pur rimanendo in parte un film d’intrattenimento nel senso più classico e avveniristico del termine, Jurassic Park mantenne la volontà di Crichton di parlare della difficile relazione tra moralità e tecnologia.
La CGI non era una novità nel mondo del cinema, anzi, da tempo si era compreso che quello era il futuro, ma con che velocità sarebbe arrivato rimanevano ancora dubbi. Jurassic Park inizialmente doveva essere dominato dal mago degli effetti dell’epoca: Phil Tippett.
Per lui l’animazione passo a uno non aveva segreti, lo aveva dimostrato in una carriera incredibile dove era stato il “mago” dietro Guerre Stellari, Il Drago del Lago di Fuoco, Indiana Jones e il Tempio Maledetto, la saga di RobCop e anche Willow. Proprio il fantasy di George Lucas aveva segnato un punto di svolta, con il morphing e la CGI della Industrial Light & Magic.
Spielberg però voleva qualcosa in più, qualcosa che fu Dennis Muren a mostrargli con la nuova Computer Grafica. Questo, unito agli animatronic di Stan Winston, alla supervisione di Michael Lantieri, con i consigli di un paleontologo tra i più stimati come Jack Horner, permise a Jurassic Park di creare qualcosa di mai visto prima. Quel qualcosa si palesò in una scena tra le più iconiche della storia del cinema: il brachiosauro che camminava di fronte a noi. Non si era mai vista prima un’illusione così realistica e ad oggi rimane il momento “meraviglia” più efficace che Spielberg abbia mai creato sul grande schermo. In nessun altro film come Jurassic Park egli ha mostrato la sua concezione di racconto sul grande schermo.
Jurassic Park univa in sé elementi semantici che Spielberg aveva già reso suoi o portato ad un livello di centralità non indifferente. Esiste un chiaro legame tra il John Hammond di Richard Attenborough, deus ex machina di quell’isola dove è rinato il regno dei Dinosauri, e Spielberg. Come Hammond, Steven crede nella tecnologia come fonte di un progresso meraviglioso, insegue una visione di realtà che abbracci il sogno e lo compenetri, la volontà di essere creatore di qualcosa che superi il confine tra credibile e incredibile. Come quel vecchio sognatore, deve lottare con un mondo fatto di regole, budget, sfiducia, nemici invisibili e incognite. Il fallimento o il successo dipendono da elementi che in realtà sono fuori dal suo controllo, il cinema è come il T-Rex che rifiuta inizialmente la capra: ha regole sue, non si può controllare, se cerchi di farlo distruggerà ogni cosa. Il gigantesco sistema operativo sperimentale che controlla il parco, non è differente dalle incognite che Spielberg affrontò mentre stanziava il più grande budget mai visto nella CGI ancora neonata. Quel film molti temevano fosse troppo serio o pauroso per quel pubblico dei più giovani, che avrebbe potuto tradire le attese, rivelarsi un’insidia come lo furono i raptor, di fatto una nemesi unica nel suo genere. Oppure no?
Tra sogno e critica al futuro tecnocratico
Molto più di un semplice film sui dinosauri Steven Spielberg era stato lanciato da lo Squalo, che aveva risvegliato una paura primitiva e atavica, di fatto cambiato la stessa industria cinematografica concettualmente. Quel film aveva chiarito come lui intendesse il cinema: un concentrato di emotività galoppante ed irrefrenabile, fatto di emozioni basilari, universali, sfumate ma perfette perché condivisibili. Il suo è uno sguardo infantile di scoperta e non deve sorprendere che l’autore di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, E.T., l’Impero del Sole o Hook, di nuovo portasse i bambini al centro della sua creazione. Tim e Lex Murphy, persi dentro un’avventura, eravamo noi, piccoli millennial, che ci trovavamo a bocca aperta di fronte a ciò che si era solo immaginato o disegnato. C’era la scoperta e assieme la paura, il terrore pari a quello del terribile pescecane degli anni ’70, c’erano i Velociraptor che strizzavano l’occhio agli xenomorfi di Alien, il T-Rex che era accompagnato dalla sonorità come quello squalo bianco che tutti ricordiamo. Il film fu siglato come PG-13, eppure non bastò a tenere i bambini fuori dalle sale. Per molti di noi Jurassic Park è stato il film dell’infanzia, una tappa fondamentale della nostra vita, anche per lo spavento, questo tesoro che oggi pare essere vietato ai più piccoli.
In mezzo a personaggi in cerca di un’identità, tutt’altro che banali vista la contrapposizione che li animava, facendo dell’attesa di nuovo ricercata alleata, Spielberg recuperò per quanto poté il tema centrale del romanzo di Crichton: il confine morale che la tecnologia distruggeva nell’uomo. Erano gli anni della guerra ipertecnologica e verticale nel Golfo, della New Economy, dell’informatica, della genetica che pareva essere il futuro dell’umanità, della scienza che non poteva essere fermata. Non poteva? “I suoi ingegneri sono così concentrati a fare ciò che fanno che non si chiedono se devono farlo”.
Era una delle tante frasi illuminanti di Ian Malcolm, che un sexy e brillante Jeff Goldblum fece arrivare come un monito all’arroganza dell’uomo, alla sua incapacità di accettare un semplice dato di fatto: nulla è veramente sotto il controllo. Si può ragionare su quanto Jurassic Park abbia reso “moda” anche la Teoria del Caos, l’ambientalismo e l’obiezione all’ingegneria genetica, ma non che non abbia cercato, pur rimanendo kolossal, di affrontare tutto questo in modo aperto e senza retorica. In quanti film degli ultimi anni, si è trovato l’equilibrio che Jurassic Park sapeva offrire tra forma e contenuto, tra intrattenimento e volontà di dare qualcosa di più di emozioni forti legate alla potenza visiva?
Naturalmente il seguito lo conosciamo. Jurassic Park, proprio come Alien, nella sua essenza in fin dei conti di mix anche tra monster e survival movie, poteva funzionare solo un certo numero di volte. Il secondo episodio fu se non altro un omaggio agli adventure di inizio XX secolo, a King Kong, poi sarebbe venuto il disastro degli ultimi anni, il capitalismo cinematografico tout court che usa la nostalgia, il fan service, che ha tradito la promessa di un’estetica funzionale anche con l’ultimo Jurassic World. Eppure, non ha scalfito anzi ha sottolineato la perfezione di questo film, trionfo del cinema come stupore, come ciò che i fratelli Lumiere avevano pensato. Il Tirannosauro come il Treno alla stazione di La Ciotat? Certamente, il principio è il medesimo, ottenuto con la stessa audacia, quella che Spielberg ha sempre avuto, anche a costo di inciampare qualche volta. A trent’anni di distanza, con i grandi autori dell’intrattenimento che ormai sono in estinzione come il Professor Grant e la sua paleontologia, Jurassic Park, stupendo miracolo che ha fatto del gran bene al cinema, rimane il film della nostra vita. Ci basta chiudere gli occhi e ricordarlo per ritrovare il bambino che è in noi, quello che uscito dalla sala cominciò a guardare ogni piccione in modo diverso.
Leggi tutto su www.wired.it
di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-06-09 04:40:00 ,