Con l’acciaio cinese che torna a inondare i mercati, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha minacciato di triplicare i dazi a tutela della produzione nazionale. Una stretta che si sommerebbe alle numerose restrizioni varate negli ultimi anni e che potrebbe portare a una nuova guerra commerciale, anche se Donald Trump non dovesse conquistare la Casa Bianca a novembre. Secondo la Banca Mondiale, nel 2023, sono state adottate 3mila limitazioni al commercio in tutto il mondo, cinque volte quelle spuntate nel 2015. «Siamo molto preoccupati per la crescente frequenza di misure protezionistiche nelle economie avanzate e in quelle emergenti e in via di sviluppo», afferma Ayhan Kose, vice capoeconomista della Banca Mondiale. «Abbiamo assistito – aggiunge – a un’incredibile prosperità e a un forte calo della povertà tra gli anni Novanta e gli anni 2010-2015, grazie all’integrazione commerciale e finanziaria. Questa inversione di politiche avrà conseguenze, soprattutto per i Paesi piccoli, aperti e che dipendono fortemente dal commercio».
Il commercio di beni e gli investimenti diretti esteri (Ide) frenano, gli accordi di libero scambio sono sempre meno: è finito un modello di globalizzazione?
Finora non abbiamo assistito a un’inversione della globalizzazione, ma vediamo che i flussi commerciali stanno cambiando. Gli Stati Uniti acquistano meno dalla Cina e più dal Messico o dal Vietnam. Poi, Messico e Vietnam acquistano di più dalla Cina. La crescita del commercio sta rallentando, ma la frenata è iniziata dopo la crisi finanziaria globale e ha preceduto le tensioni che abbiamo visto dopo il 2016. Questa tendenza può accelerare a causa delle misure che i Paesi stanno attuando ora. Non ci sono solo i dazi: friendshoring, nearshoring, la maggior parte delle politiche industriali, sono politiche che generano distorsioni nel commercio. Anche gli Ide stanno rallentando. La frammentazione del commercio va di pari passo con la frammentazione degli investimenti. Gli Ide totali rispetto al Pil globale sono in calo dal 2007 e hanno toccato il minimo l’anno scorso. È molto inquietante.
Tuttavia, la dipendenza da Paesi che possono diventare rivali è un rischio. Non è opportuno diversificare la catena di fornitura?
Sì, è giusto diversificare la supply chain e ridurre la dipendenza, ma questo implica necessariamente che un Paese debba attuare tutti i tipi di restrizioni? Per rispondere a questa domanda è necessaria una riflessione più approfondita. Qual è l’obiettivo finale? Ci sono sempre considerazioni sulla sicurezza, sulla resilienza delle catene di approvvigionamento, sull’opportunità di tenere settori industriali sensibili nel proprio Paese o in Paesi alleati o amici. Ma quello che succede tutte le volte che introduci restrizioni su beni che acquisti da me, è che io poi introduco restrizioni sui beni che provengono da te, e così via. È un buon risultato? È un’illusione. Su questi temi deve esserci un discorso più informato e intelligente. Non nego che ci siano considerazioni di politica economica interna rilevanti.
Chi vince in un mondo frammentato?
La frammentazione consiste nello spostare la supply chain da un luogo all’altro. Se assorbi una parte della catena di approvvigionamento che prima non avevi, puoi finire per vincere, almeno per un po’. Ma nessuno vorrà restare a guardare e tutti inizieranno a proteggere le proprie industrie. Sarebbe un danno collaterale per l’economia mondiale. E siamo preoccupati degli effetti sulle economie dei mercati emergenti e in via di sviluppo. Quando i Paesi iniziano a imporre questo tipo di restrizioni, non sono bravi a contenerle. Questo si ripercuote sugli altri Stati, che reagiscono.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, la contestazione della globalizzazione veniva soprattutto dal basso, dalle Ong, dai movimenti, ed era una protesta anche contro i leader politici. Ora sono i leader politici a portare avanti questa avversione e ci vincono le elezioni. Cosa è successo secondo lei?
Quando certe cose non accadono nel modo in cui vorremmo, le persone cercano di trovare le cause. Vorremmo vedere prosperità, crescita, vorremmo un tenore di vita più alto, una vita migliore. È vero negli Stati Uniti, in Italia, in altri Paesi, ovunque. Quando questo non accade, o non accade alla velocità che vorremmo, cerchiamo le cause: è a causa del commercio, dei migranti, della tecnologia o dei cambiamenti tecnologici? Soprattutto dopo la crisi finanziaria globale, le cose si sono fatte molto più intense contro l’integrazione e la globalizzazione, a causa dell’enorme erosione del reddito e del drastico rallentamento della crescita. È stato un trauma per i Paesi europei come per gli Stati Uniti. C’è stata una reazione contro l’integrazione del commercio, anche se le persone stavano perdendo il lavoro fondamentalmente a causa della tecnologia piuttosto che del commercio. Questo non nega il fatto che l’integrazione degli scambi avrebbe potuto essere gestita meglio. Ci sono state persone che hanno perso a causa di questo e che avrebbero dovuto essere compensate molto meglio. I politici hanno fallito in questo e ora desiderano solo rimediare. Tutto ciò non cambia i benefici dell’integrazione, in termini di creazione di posti di lavoro, povertà e ricadute tecnologiche transfrontaliere.