La crisi politica seguita al voto di fiducia sul decreto Aiuti al Senato, nel quale si è astenuto il Movimento 5 Stelle, è stata piuttosto rapida e ha due livelli di motivazioni – quelle dichiarate, e quelle non dichiarate ma comunque fondate – che potrebbero non essere del tutto chiare a chi si è perso qualche passaggio di quanto successo nelle ultime settimane alla maggioranza che sostiene il governo di Mario Draghi.
Una difficoltà nel capire cosa succede è anche legata all’aspetto formale: la crisi di governo non è formalmente iniziata, perché il governo ha ancora la maggioranza parlamentare e Draghi non si è ancora dimesso. E per il momento c’è qualcuno che ipotizza addirittura che il governo possa rimanere in piedi, e addirittura che il M5S possa rientrare nella maggioranza. Ci arriviamo.
Il contesto
Il governo Draghi esiste dal febbraio del 2021, e venne formato in un momento in cui l’Italia aveva davanti almeno un paio di grosse questioni da affrontare: la campagna di vaccinazioni per il Covid e la compilazione del PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza necessario per ricevere gli oltre 200 miliardi di euro di fondi stanziati dall’Unione Europea per la ripresa dalla pandemia, a fronte dell’approvazione di una serie di riforme con ritmo serrato (in mancanza di queste riforme, l’Italia non avrebbe ricevuto parte dei fondi).
Sostennero il governo e vi entrarono con i propri ministri tutti i principali partiti, con l’eccezione di Fratelli d’Italia: di fatto accettarono di formare un governo di unità nazionale, convinti dall’iniziativa adottata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a fronte della loro incapacità di individuare un’altra maggioranza e anche dall’autorevolezza di Draghi, e tra le altre cose proprio per partecipare alle decisioni su come spendere tutti quei soldi. Già dopo pochi mesi l’eterogeneità della composizione, che andava dal centrosinistra alla destra radicale, originò vari sommovimenti e mezze crisi, spesso dovuti all’atteggiamento ambiguo della Lega di Matteo Salvini.
Il posto del Movimento 5 Stelle
Alla fine però è stato il M5S a provocare la crisi. Il partito è in crisi di consensi e di leadership da anni: mentre nei sondaggi continuava a calare, e otteneva risultati sempre più deludenti alle elezioni amministrative, la dirigenza è passata con varie difficoltà e inciampi all’attuale presidente Giuseppe Conte, che ha provato senza molto successo a ridare centralità al partito riavvicinandolo ai principi delle origini, ma sempre mantenendo l’alleanza con il centrosinistra instaurata in occasione del suo secondo governo.
Una parte importante del partito è sempre stata riluttante all’idea di sostenere Draghi – un tempo tra i simboli di quello a cui si opponeva il M5S – e questa insofferenza è gonfiata col passare dei mesi, dando nuovi argomenti a chi dentro il partito sostiene che appoggiare Draghi abbia contribuito alla perdita di consensi. Le difficoltà di Conte e il pessimo risultato alle amministrative di giugno hanno peggiorato le cose, e una serie di circostanze che risalgono alle ultime settimane ha evidentemente convinto Conte che la soluzione migliore fosse uscire dal governo.
Scissioni e retroscena
Il più importante avvenimento recente che ha destabilizzato il M5S è stata la scissione seguita all’uscita dal partito di Luigi Di Maio, arrivata a giugno dopo settimane in cui Conte e il M5S sembravano voler votare in Parlamento contro l’impegno italiano a favore dell’Ucraina. Le molte e rumorose obiezioni del M5S e dello stesso Conte – che a un certo punto ha detto «credo che l’Ucraina sia stata sostenuta a sufficienza, anche in termini di aiuti militari» – non si sono tradotte infine in un voto del M5S contro il governo, ma hanno contribuito alla decisione di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed ex leader del partito da mesi in competizione e polemica con Conte, di uscire dal partito e fondare un partito di orientamento più moderato, Insieme per il futuro, portandosi dietro una sessantina di parlamentari del M5S.
L’uscita dell’ala più “governista” del M5S ha ulteriormente allontanato Conte da Draghi, e i rapporti tra i due – descritti da sempre come problematici – sono ulteriormente peggiorati dopo alcune dichiarazioni del sociologo Domenico De Masi, considerato vicino al M5S e a Conte, secondo cui Mario Draghi e Beppe Grillo avrebbero commentato al telefono l’inadeguatezza politica di Conte – che Grillo la scorsa estate aveva definito privo di «visione politica», «capacità manageriali», «esperienza di organizzazioni», «capacità di innovazione» – e addirittura che Draghi avrebbe chiesto a Grillo di rimuovere Conte dalla leadership del partito. Queste accuse erano state estesamente smentite, anche dallo stesso Draghi, ma avevano creato ulteriori divisioni nella maggioranza.
Il decreto Aiuti
La crisi si è ufficialmente sviluppata sul decreto Aiuti, un insieme assai vario di misure economiche deciso dal governo su cui il M5S è stato molto critico. In particolare, Conte ha fatto a Draghi una serie di richieste precise, su tutte il rinnovo del Superbonus edilizio, un rafforzamento del reddito di cittadinanza e lo stralcio di una norma che consentirebbe la costruzione di un termovalorizzatore per rifiuti a Roma (a cui il M5S si oppone da anni).
Erano iniziate perciò delle trattative tra Conte e Draghi: il leader del M5S aveva presentato una serie di richieste, specificando poi che non erano “ultimatum”, su cui il presidente del Consiglio si era mostrato conciliante, sostenendo che erano in linea con l’agenda del governo. La crisi sembrava rientrata, ma nel giro di pochi giorni le pressioni da dentro e fuori il M5S affinché venisse meno il sostegno al governo erano tornate ad aumentare.
La crisi vera e propria
Il governo Draghi ha la maggioranza parlamentare anche senza i voti del M5S, ma Draghi e altri leader politici, tra cui il segretario del Partito Democratico Enrico Letta, hanno detto esplicitamente che con l’uscita del M5S dalla maggioranza verrebbe meno il senso stesso del governo, che era stato formato proprio sull’appoggio trasversale del Parlamento e sul suo carattere di “unità nazionale” (il M5S è stato il partito più votato alle elezioni politiche del 2018, ed è ancora il gruppo di maggioranza relativa in Senato).
Anche la Lega ha detto che senza il M5S l’unica soluzione sono le elezioni anticipate, e molti giornalisti politici vedono nella crisi attuale una grande opportunità per Matteo Salvini, che da mesi cercava di sganciare la Lega dal governo senza prendersi però la responsabilità di una rottura con Draghi. Fratelli d’Italia, il partito che più di tutti ha interesse ad andare al voto visti gli ottimi sondaggi, ha a sua volta spinto per questa soluzione, seppur dall’opposizione.
Draghi ha quindi deciso di porre la questione di fiducia sul decreto Aiuti: una procedura con cui si verifica l’esistenza di una maggioranza sull’approvazione di una legge, ma in questo caso era più un modo per costringere il M5S a decidere se stare dentro o fuori. Alla Camera il M5S ha votato la fiducia, pur non partecipando al voto sul decreto Aiuti, ma al Senato questa cosa non si può fare.
Mercoledì le cose hanno avuto una ulteriore accelerazione. Sembrava che Conte potesse convincersi ad accordare la fiducia a Draghi e provare a convincere il partito a fare lo stesso: ma era evidente che una crisi avrebbe potuto ripresentarsi poco dopo, e dopo essersi esposti per giorni con grande perentorietà contro il decreto Aiuti una retromarcia sarebbe stata complicata da spiegare e giustificare. Alla fine un’assemblea dei parlamentari del M5S ha concluso che i senatori avrebbero dovuto uscire dall’aula, senza votare così la fiducia.
E adesso?
La situazione è fluida e incerta. Il governo Draghi ha ancora la maggioranza parlamentare, anche senza i voti del M5S. E il M5S ufficialmente non ha detto che uscirà dalla maggioranza, ma si è limitato a non votare la fiducia al decreto Aiuti: le due cose per molti coincidono, ma qualcuno ha anche ipotizzato che si possa trovare qualche soluzione creativa per far rientrare il M5S con un secondo voto di fiducia alle camere.
Draghi però non sembra propenso ad accettare questa soluzione, perché vorrebbe dire presiedere un governo molto fragile e con la possibilità che una nuova crisi si sviluppi in breve tempo. Dopo il voto al Senato è andato al Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con cui deciderà cosa fare.
Può decidere, come detto, di restare presidente del Consiglio, sostenuto da una maggioranza più debole senza il M5S, oppure di provare a far rientrare il M5S con nuove trattative e un nuovo voto di fiducia.
Oppure può decidere di dimettersi: il governo cadrebbe, rimanendo solo in carica per gli affari correnti, cioè l’ordinaria amministrazione, una definizione che la Costituzione non dettaglia ulteriormente. A questo punto possono succedere due cose: Mattarella incarica qualcuno – una persona considerata autorevole e più o meno super partes, probabilmente – per cercare di formare un nuovo governo che abbia la maggioranza, fino alle elezioni previste all’inizio del 2023. Oppure può sciogliere le camere, e si attiverebbero le procedure per andare a votare probabilmente quest’autunno.
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, 2022-07-14 13:40:37 ,
Il post dal titolo: La crisi politica, spiegata – Il Post scitto da il 2022-07-14 13:40:37 , è apparso sul quotidiano online Politica – Il Post dove ogni giorno puoi trovare le ultime notizie dell’area geografica relativa a Politica