Tra due mesi compirà settant’anni ma non si ferma. Resterà ancora, fino alla fine dell’anno. Poi si vedrà. Maria Bruna Lorenzi è un medico del pronto soccorso dell’ospedale Torregalli di Firenze. Lavora, cioè, nel reparto dal quale molti scappano e dove pochissimi giovani vogliono entrare. Il suo è un caso più unico che raro nel nostro Paese. In Italia sono ben pochi i suoi coetanei che si districano quotidianamente tra ictus, fratture e infarti e non sono primari. Nel milleproroghe è stato inserito un articolo che permette ai camici bianchi ospedalieri di restare fino a 72 anni ma senza mantenere, se li hanno, ruoli apicali.
Dottoressa, da quanto tempo è al pronto soccorso?
“Ho iniziato come guardia medica, quando non c’erano ancora cellulari e navigatori e curavamo persone da 0 a 90 anni. Poi dalla fine degli anni Ottanta ho lavorato sulle ambulanze del 118. Dal 2007 sono arrivata al pronto soccorso di Torregalli. Si può dire che la mia è stata una vita per l’emergenza”.
Non è ancora arrivato il momento di smettere?
“Ho chiesto al mio primario e all’azienda sanitaria, visto che c’era la possibilità, di non smettere quando compio 70 anni, a maggio, ma di andare avanti fino a dicembre”.
Come è iniziata la sua storia professionale?
“Ero una brillantissima studentessa al quarto anno di Medicina a Pisa quando la fabbrica di laterizi dove lavorava come dirigente mio padre ha chiuso. Lo hanno mandato a casa e io ho mollato l’università per lavorare come assistente alla poltrona di un dentista. Ma la passione per la medicina era troppo grande e dopo 2 o 3 anni ho ripreso a studiare. Non è stato facile”.
E’ tentata dal restare fino a 72 anni, cioè per un anno e mezzo in più?
“Al momento no, basta. Mi voglio un po’ godere la vita, essere più libera, dedicarmi a sport, viaggi e amicizie. Comunque, la possibilità di restare su base volontaria è positiva. Chi ha esperienza può essere di aiuto ai giovani, diventare un punto di riferimento”.
Tanti medici scappano dai pronto soccorso, che hanno problemi in tutta Italia, lei è restata. Come mai?
“Appartengo a un’altra generazione. Ai nostri tempi c’era la cosiddetta pletora di medici e quando si trovava un posto fisso non si lasciava. Poi, chiaramente, mi piace il lavoro e mi trovo bene con i miei colleghi”.
L’impiego però è duro, tra festivi e turni di notte.
“Sì e mi stanco molto. Però non mi stresso perché appunto l’ambiente di lavoro è buono”.
Come mai i giovani non vogliono più stare al pronto soccorso?
“CI sono tanti motivi. Soprattutto, chi è qui ha poco spazio per il privato. Un collega giovane, magari con dei bambini piccoli, vorrebbe più tempo per fare un po’ di vita sociale ma non è possibile. Visto che in questo periodo gli specializzandi sono pochi rispetto alle borse universitarie, e quindi possono scegliere, molti preferiscono altre strade”.
Chi sta nell’emergenza di solito ha poca attività privata. Lei fa visite a pagamento?
“Praticamente non ne ho fatta nemmeno una in tutta la carriera”.
E a lei cosa piace del pronto soccorso?
“Si vedono le patologie più diverse. E poi in certi casi possiamo fare la differenza tra la vita e la morte. Non ci si annoia mai, ci sono spesso misteri da risolvere, il brivido della diagnosi è stimolante. Inoltre, bisogna sempre studiare, aggiornarsi, cioè tenere il cervello sempre in allenamento”.
Si denunciano sempre più aggressioni da parte di pazienti o accompagnatori, soprattutto nei servizi di emergenza. A lei è mai capitato di essere presa di mira?
“No, fortunatamente non ho mai avuto problemi da questo punto di vista. Poi, i cafoni ci sono sempre. Capita di avere a che fare con persone maleducate”.
Che dicono parenti e colleghi del suo desiderio di lavorare oltre i 70 anni?
“In famiglia, ho un figlio di 30 anni, sono contenti che continuo. Mio marito ha sempre rispettato molto le mie scelte. Alcuni colleghi, invece, mi chiedono che problemi ho a voler restare”.
E lei che risponde?
“Con una battuta: ‘Tanti’, dico”.
In effetti i pronto soccorso sono sempre più sotto pressione. E’ vero?
“Una volta erano più tranquilli, in effetti. Purtroppo, oggi vengono tante persone che non avrebbero bisogno dei servizi di emergenza. E visto che c’è meno personale, l’impatto della domanda è più forte e ci mette in crisi”.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2024-03-31 13:48:46 ,firenze.repubblica.it