La Fed rallenta, e cambia strategia. Quasi certamente, nella riunione di dicembre, alzerà i tassi di 50 punti base, portandoli al 4,25%-4,50%, dopo quattro rialzi consecutivi da 75 punti base. Il presidente, Jerome Powell, ha già preparato mercati e operatori economici: ha avvertito che i parametri con cui giudicare la stretta, dopo questa fase di rapida uscita dal periodo “ultraespansivo”, saranno ora la sua durata nel tempo e il suo punto di arrivo, che sarà più alto di quanto si era immaginato fino a ottobre (il 4,75-5%? il 5-5,25%?). I “dot” di dicembre, i puntini con cui i singoli governatori indicano le loro previsioni sull’andamento dei tassi, saranno importanti per capire cosa significa in concreto questa nuova strategia.
Inflazione molto volatile
Il momento per un cambio di passo sembra, in ogni caso, maturo. L’inflazione degli Stati Uniti – misurati dall’indice di riferimento Pce – ha mostrato negli ultimi tempi una tendenza molto meno chiara, rispetto ai mesi precedenti. È diventata, non solo negli Stati Uniti, più volatile – e questo rende difficile le previsioni – ma non sembra più così orientata al rialzo. Non è uno sviluppo sufficiente: l’inflazione deve calare. Negli Usa l’indice ‘core’ tende a indicare l’andamento futuro dell’inflazione complessiva, e l’attuale livello del 5% circa è decisamente insoddisfacente. Non mancano però segnali secondo cui i rapidissimi rialzi finora decisi iniziano, molto lentamente, a “mordere”.
Aspettative di inflazione più «fredde»
Le aspettative di inflazione di lungo periodo – misurate dagli strumenti finanziari – sembrano essere meno in tensione rispetto al passato. I break even a 5 anni – ancora i più elevati – e quelli a 10 anni puntano al 2,3%, mentre gli swap 5y5y, sono appena più in basso, al 2,2%. Il livello ideale, ipotizzando l’assenza di premi al rischio e alla liquidità – è evidentemente il 2%, che corrisponde all’obiettivo della Federal reserve (sia pure medio), ma siamo lontani dai picchi al 3,6% toccati a inizio anno, quando i tassi erano ancora allo 0-0,25% in una situazione già ampiamente inflazionistica.
Curva dei rendimenti in calo nel lungo periodo
La curva dei rendimenti è ormai a livelli piuttosto elevati. È in calo, nelle scadenze oltre l’anno, rispetto ai livelli precedenti la riunione di politica monetaria di fine ottobre, ma non è escluso che esprimano la previsione di una frenata dell’attività economica in parte, almeno, “voluta” dalla stessa Fed per frenare l’economia. Sono tassi che vanno depurati dalle aspettative di inflazione: il 2,2-2,3% per le scadenze più lunghe, l’inflazione attuale (che tende a pesare, a incidere sul futuro immediato) per quelle più vicine. Con un indice in crescita annua del 6%, la parte a breve esprime ancora tassi negativi e “chiama” quindi nuovi rialzi.
Rischi di recessione?
L’inversione della curva – i tassi a sei mesi e a un anno sono superiori a quelli a tre anni e oltre – è considerata un segnale di frenata dell’economia. Non è detto, non è sempre così. Nelle attuali circostanze può essere il riflesso di aspettative più basse per il lungo periodo (la Fed ha quindi conservato la sua credibilità), ma se il raffreddamento dei prezzi va realizzato con un rallentamento dell’attività economica, le due cose coincidono. Le probabilità di recessione a un anno, calcolate dalla Federal reserve di Cleveland sulla base della curva dei rendimenti, sono salite al 41 %. Un buon motivo, se non altro sul piano del risk management, per essere più cauti.