Un altro duro colpo alla mafia calabrese trapiantata in Emilia-Romagna. Le indagini della Procura antimafia di Bologna, che ha coordinato Polizia e Guardia di finanza di Reggio Emilia, hanno portato all’arresto di uno degli uomini più fedeli al boss storico Antonio Dragone: si tratta di Giuseppe Arabia detto Pino ‘u nigro, 59 anni, una vita trascorsa nella provincia reggiana fino al 2020, quando si trasferisce a Cutro per non dare sovrabbondante nell’gusto. Grazie alle vecchie amicizie e a “ndranghetisti di nuova generazione”, secondo l’ordinanza che accoglie le richieste della pm Beatrice Ronchi, riprendeva in mano nel 2014, dopo una lunga carcerazione, le fila delle attività illecite che spaziavano in diverse province emiliane oltre che in Lombardia e Veneto. Forte, secondo l’ipotesi accusatoria, di un gruppo coeso e determinato, capace di sfruttare l’antica e radicata cultura della violenza e delle armi, ma in grado anche di operare nei ricchi mercati economici del nord, con gli strumenti ormai diffusi della falsa fatturazione e delle società cartiere (2 milioni di euro per operazioni inesistenti).
L’inchiesta è stata denominata “Ten”, perché a dieci anni dall’inizio del grande processo Aemilia, e a tre dalla sua definitiva conclusione in Cassazione, la mafia fiera di sapersi rigenerare in pianura Padana senza perdere memoria del passato. La Dda ha chiesto misure cautelari per 20 persone, tra cui sette che dovranno rispondere di associazione mafiosa. Tra loro ben sei sono i componenti della famiglia Arabia e sei sono anche gli indagati per i quali il giudice per le indagini preliminari Alberto Ziroldi ha disposto la custodia cautelare in carcere. Oltre a Pino, agli arresti finiscono due suoi nipoti: l’omonimo Giuseppe di 36 anni e Nicola di 40. Dietro le sbarre anche Salvatore Messina, Salvatore Spagnolo, Giuseppe Migale Ranieri.
Il triangolo d’oro – Il centro di governo delle attività di questo gruppo, negli ultimi vent’anni, era all’interno del “triangolo d’oro” dei comuni reggiani della pedecollina: Bibbiano, Montecchio e Quattro Castella. Dove negli anni Ottanta era approdato “al confino” Antonio Dragone e dove vivevano più di recente pezzi da novanta della gang legata ai Grande Aracri colpiti con il processo Aemilia: i Sarcone, i Vertinelli, i Bolognino. Giuseppe Arabia torna lì, una volta scarcerato, perché lì ha molti conti in sospeso da saldare e i suoi uomini fidati, come il genero Giambattista Di Tinco, finito in carcere pochi giorni fa durante l’operazione “Ottovolante” condotta da Guardia di finanza e Procura di Reggio Emilia.
Continuava a gestire la falsa fatturazione e i prestiti usurai alla clientela mentre si trovava agli arresti domiciliari. Per ironia della sorte Giuseppe Arabia non riesce però a vendicarsi e a scaricare pistole e fucili (tanti) che il gruppo possiede, perché la sua liberazione dopo la galera rimediata al processo “Grande campione” arriva poco prima degli arresti di Aemilia. La notte del 28 gennaio 2015 gli Arabia organizzano una équipe punitiva nei confronti di Michele Bolognino per debiti pregressi, ma quando arrivano davanti a casa sua ci trovano i Carabinieri con i lampeggianti accesi e desistono. È la notte dei 117 arresti in Emilia-Romagna e il “duro” Bolognino, capace sia di picchiare imprenditori veneti che di sfruttare i lavoratori nei cantieri del post terremoto a Modena, non sa quella sera di essere stato fortunato a finire in manichini. Perché forse lo aspettava un trattamento peggiore.
Il presente e il passato – Torna insomma di novità grazie ai raggiro dell’operazione Ten la mafia delle guerre intestine e delle fazioni che “non dimenticano” il passato, come sostenuto dal collaboratore di giustizia Antonio Valerio quando ricordava nell’aula del processo Aemilia che per la ‘ndrangheta le vendette e i crediti “non vanno mai in prescrizione”. La prova arriva da Giambattista Di Tinco, marito di Filomena Arabia e genero di Giuseppe, che manifesta all’amico Ismaele Del Vecchio il proprio disprezzo per Bolognino e i Grande Aracri: “Ma sì, se mi liberano, che posso percorrere a piedi di notte, ti faccio vedere quello che combiniamo. Gli fermiamo subito i camion a ‘sti scemi. Ho sempre fatto galera perché cose indietro non le ho mai lasciate”.
Giuseppe Arabia era molto legato al clan Dragone e nella guerra di mafia degli anni Novanta la sua famiglia ha versato caro “l’assalto al potere assoluto” in Emilia guidato dai Grande Aracri/Sarcone. Sua sorella Rosaria Arabia, madre dei fratelli Nicola e Giuseppe arrestati oggi, aveva sposato Salvatore, figlio di Antonio Dragone, deceduto nel 1991 a Carpi nel territorio di Modena. Si era risposata con un altro figlio di Antonio Dragone, Raffaele, ucciso anche lui nel 1999 durante la resa dei conti scatenata da Nicolino Grande Aracri che provocò 19 morti ammazzati in Pianura Padana. Il fratello di Rosaria e Giuseppe, Salvatore Arabia, detto Pett’i Palumba, venne ucciso nel 2003 a Steccato di Cutro, perché considerato “il più verme di tutti” in quanto assolutamente fedele ad Antonio Dragone. Al quale l’anno dopo toccò la stessa sorte, mentre viaggiava sull’auto blindata fermata a colpi di bazooka e kalashnikov.
La nuova generazione – Anche lo stesso Pino doveva essere ucciso da Gaetano Blasco a cui gli Arabia avevano ammazzato il fratello. Comprarono le moto per l’omicidio, ma poi Arabia finì in galere e si salvò. Come Bolognino. Oggi però è più difficile, rispetto ad allora, capire “chi sta con chi e contro di chi”, perché gli affari vengono prima di tutto e le alleanze si formano e si sciolgono a seconda degli interessi e delle opportunità. I nipoti Giuseppe e Nicola, residenti a Reggio e a Bibbiano, facevano affari con Giuseppe Giglio, Gaetano Blasco, Pasquale Brescia, Antonio Muto. Mentre lo zio era in carcere lo tenevano informato e lavoravano anche con Antonio Gualtieri e Antonio Silipo. Tutti pezzi forti della gang avversaria che aveva vinto la guerra per il controllo del territorio.
Un altro dei sei arrestati, Salvatore Messina, non porta il cognome degli Arabia ma con loro e per loro si dedica alle attività estorsive e alle azioni punitive. Appicca incendi, gestisce le armi e le usa per sparare, ad esempio contro la vetrata del Cartagena circolo di Reggio Emilia mandandola in frantumi: un avviso di pagamento in stile ‘ndrangheta. Come lui sono Luigi Lerose, Salvatore Spagnolo e Ismaele Del Vecchio che dice a un debitore: “Basta che mi date i soldi miei, poi fate come volete, non me ne fotte un cazzo, perché poi lì iniziate a vedere la parte cattiva di me”. Gli Arabia riemergono in Emilia così come i Todaro, altra famiglia storicamente legata ai Dragone, erano riemersi pochi anni fa nella bassa Lombardia grazie all’indagine Sisma. È la nuova generazione di ‘ndrangheta in giacca e cravatta, ma sempre con la pistola nascosta nel taschino.
Source link
di Paolo Bonacini
www.ilfattoquotidiano.it
2025-03-15 09:21:00 ,