Quando nell’aula costruita negli anni Ottanta per il maxiprocesso a Cosa nostra entra l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, Matteo Salvini sta digitando qualcosa sul cellulare. Sono le 10,34, ed è l’inizio di una giornata da “c’eravamo tanto amati”, una danza sui cocci del governo Conte I: il leghista assiste alla sfilata dell’ex premier e del suo collega vice Luigi Di Maio facendo mostra di avere impegni istituzionali da mandare avanti, ma per tutto il giorno mantiene una faccia livida, infuriata con gli ex compagni di percorso che gli siedono davanti senza mai incrociarne lo sguardo.
Sembra una reunion di quel governo, l’udienza. Non ci sono solo il premier e i suoi due vice, uno imputato e l’altro teste: anche l’avvocata di Salvini, Giulia Bongiorno, era ministra della Pubblica amministrazione in quell’esecutivo. Eppure l’ex titolare del Viminale ignora tutti gli alleati di quel tempo: il leghista, di solito prodigo di parole per i cronisti, stavolta si sottrae, sfugge, rimanda. “Parlerà dopo”, dice già dal giovedì sera il suo staff: il “dopo”, però, non arriverà mai, se non mediato dai post su Facebook o dai comunicati. Avendo così dribblato le domande dei giornalisti che lo attendono per tutto il giorno, l’unica persona a cui Salvini si dedica finisce per essere Luciana Lamorgese, che in quel Consiglio dei ministri non c’era: “L’udienza celebrata oggi — commenterà l’imputato alla fine, aggrappandosi a un passaggio delle dichiarazioni rese da colei che gli succedette al Viminale — ha confermato un dato oggettivo. Rischio fino a 15 anni di carcere per il mancato sbarco dalla nave della ong spagnola tra il 14 e il 20 agosto 2019, nonostante Luciana Lamorgese abbia confermato di aver trattenuto gli immigrati a bordo di una nave in più di una occasione”.
Sugli altri neanche una parola. Conte e Di Maio ricambiano: l’ex premier risponde alle domande di Bongiorno di tre quarti, come per non far entrare Salvini nel campo visivo, mentre l’ex ministro dello Sviluppo viene invitato dal presidente Roberto Murgia a rivolgersi alla corte e ne approfitta per dare quasi le spalle al leghista. È una danza degli sguardi negati: i testimoni, fatalmente, prima di sedersi sfilano davanti all’imputato e questi fa sempre in modo di avere qualcos’altro da fare.
Salvini si atteggia a uomo impegnato: prima di cominciare pubblica sui social una propria immagine in aula, dove sarebbe vietato fare foto, e in quello scatto si mette in posa da ministro con i dossier davanti. È un copione studiato nei dettagli: subito dopo l’ingresso di Conte l’imputato si gira verso il suo staff per concordare un comunicato su un cantiere a Brescia, poi farà in modo di fare filtrare una nota su un’iniziativa elettorale con Attilio Fontana.
Il resto è mera tattica processuale. Con Salvini che cerca ancora di ribaltare il merito del dibattimento, insinuando che fosse l’ong a commettere reati: “Sono sconcertato — dice — perché sono emerse solo a procedimento in corso le informazioni raccolte da un sottomarino della Marina. Registrò l’attività di Open Arms nell’agosto 2019, certificando alcune anomalie che facevano ipotizzare il traffico illegale di esseri umani”. “Sono sette anni che le ong del mare vengono indagate, diffamate, ostacolate, bloccate — ribatte via Twitter il ideatore di Open Arms Oscar Camps, che siede sul lato opposto dell’aula — eppure finora l’unico indagato è Salvini”. Che si ritrova solo, scaricato dagli ex alleati e persino costretto a schivare i riflettori. Cercando di darsi un tono nel momento più nervoso del processo.
[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2023-01-14 03:48:03 ,palermo.repubblica.it