Non c’è mai stato momento migliore per essere parte della razza umana. Negli ultimi settant’anni abbiamo fatto progressi dei quali non si può che andar fieri: tra il 1940 e il 2015 la percentuale di adulti in grado di leggere e scrivere è raddoppiata e le persone in estrema povertà sono diminuite, fino a raggiungere quota 733 milioni contro il miliardo e 600 milioni del 1950. Significa che in 65 anni la povertà estrema è passata dal riguardare il 63% dell’umanità al 10%. Il tutto mentre il nostro numero triplicava.
Allo stesso tempo però non c’è mai stato un momento peggiore per il nostro pianeta. E ciò vuol dire che a breve anche lo stato di relativa grazia dell’uomo finirà, con un impatto sulla nostra vita in forme diverse. A sostenerlo una raccolta di saggi intitolata Salute Planetaria (Franco Angeli) che esce in Italia in questi giorni curata da Samuel Myers, Principal Research Scientist presso l’Harvard T.H. Chan School of Public Health e Direttore della Planetary Health Alliance, e Howard Frumkin, professore emerito di Scienze della salute ambientale ed ex preside della School of Public Health dell’Università di Washington, che è da anni un punto di riferimento nell’analisi attuale e storica dello stato di salute del genere umano.
“Parlare di salute pubblica ormai significa dover prendere in considerazione anche quel che sta accadendo all’ambiente, dato che ha un effetto misurabile sulla cittadinanza”, racconta Frumkin in collegamento da Seattle. “La divisione dei saperi in discipline va superata se si vogliono trovare delle soluzioni. Per questo alcuni di noi, in particolare chi studia nel campo della medicina, hanno preso a collaborare con ecologi, scienziati del clima, economisti e ad usare i loro dati per costruire modelli e previsioni. Siamo convinti che non possiamo più limitarci ad analizzare le evidenze di quel che accade trovando un antidoto a posteriori, ma serve anticipare il futuro. Quantomeno avere un’idea di ciò a cui stiamo andando incontro“.
E in effetti le seicento pagine del libro dipingono più di uno scenario, o se si preferisce tasselli di un unico mosaico di quel che ci aspetta. Diviso in quattro parti e diciotto capitoli, ha coinvolto una quarantina di autori provenienti da campi diversi: dall’ecologia all’agronomia, dalla pianificazione urbana e dei trasporti alle scienze della terra, dall’energia all’equità sociale. Il quadro che ne esce non è affatto rassicurante, in alcuni casi fa anzi venire i brividi, anche se ad ogni macrofenomeno analizzato corrisponde sempre anche una lista di strategie a portata di mano per correggere la rotta.
Restando nel campo della salute, le conseguenze dei cambiamenti climatici possono essere suddivise in dieci categorie: quelle legate alla temperatura, alle condizioni meteorologiche avverse e ai disastri, la riduzione della qualità dell’aria, l’aggravamento delle allergie, l’aumento del rischio di malattie infettive, gli effetti nutrizionali. Ai quali vanno poi aggiunti anche le migrazioni, i conflitti civili, gli impatti sulla salute mentale, sempre legati o provocati al deterioramento del Pianeta.
“È impossibile identificare un unico problema come il più grave di tutti”, sostiene Frumkin. “Come lo si potrebbe giudicare tale? In base al numero dei decessi, la quantità di sofferenza inferta, i danni economici? La perdita di biodiversità, il degrado del suolo su scala globale, l’impoverimento degli oceani, la crescita delle malattie infettive e tutti gli altri problemi causati dalla crisi climatica sono severi anche se colpiscono in maniera diversa secondo la latitudine. Nessuno di questi però è indipendente dagli altri, sono correlati allo stato sempre più precario degli equilibri della Terra ed è proprio in questo che risiede la sua profonda gravità“.
Ne selezionamo noi uno, che ha interessato in particolar modo anche il nostro Paese questa estate, ovvero il caldo eccessivo sia sotto forma di forti ondate di calore sia come “nuova normalità” a lungo termine. Le conseguenze mediche vanno da condizioni minori e autolimitanti come eruzioni cutanee e crampi, a esiti gravi e forse fatali come i colpi di calore. I tassi di mortalità del resto aumentano durante la stagione estiva, che si sta via via mangiando primavera e autunno, principalmente a causa dell’aumento dei decessi dovuto a malattie cardiovascolari. L’ondata di caldo di Chicago del 1995 ha causato circa 700 decessi in più rispetto alla media. Nulla rispetto a quanto accaduto in Europa nel 2003: oltre 70mila decessi.
Al di là di questi effetti letali, il calore è associato a una serie di altre complicazioni mediche, dall’aumento del rischio di calcoli renali e malattie renali croniche ai disturbi del sonno, dall’aumento della violenza e dei possibili suicidi, alla sostanziale riduzione della capacità lavorativa con gravi conseguenze sociali ed economiche. E poiché sempre più persone si stabiliscono nelle città, la loro esposizione al caldo è aggravata dall’effetto “isola di calore”, ovvero la tendenza delle città a essere più bollenti rispetto alle aree rurali, a causa delle superfici scure come l’asfalto e la poca vegetazione che altrimenti fornirebbe refrigerio attraverso l’evapotraspirazione. Il calore non solo crea direttamente dei rischi per la salute, ma riduce anche la qualità dell’aria determinando la formazione di ozono a livello del suolo, che è una tossina respiratoria.
Nei prossimi anni, il clima più caldo ridurrà il numero di decessi legati al freddo in alcuni luoghi, ma non abbastanza da compensare quelli che, secondo le previsioni, saranno gli aumenti di decessi. Uno studio compiuto su più di 200 città americane parla di un incremento netto di migliaia di decessi aggiuntive ogni anno a partire dalla fine di questo secolo in caso di mancata applicazione di politiche adeguate di adattamento. E alcune categorie, le fasce di cittadinanza meno solide dal punto di vista economico, coloro che vivono socialmente isolati, i molto giovani e i molto anziani, i soggetti che soffrono di determinate patologie o chi svolge lavori all’aperto, si troveranno in una situazione di rischio molto elevato.
“In un contesto del genere, una delle armi che abbiamo a disposizione è la possibilità di collaborare tutti per affrontare le difficoltà perché dovremo per forza condividere strategie, risorse, soluzioni“, aggiunge l’altro curatore del volume, Samuel Myers, da Boston. “Ma stiamo andando nella direzione opposta purtroppo, con una chiusura progressiva di Paesi o aree geografiche fra vecchi e nuovi nazionalismi dovuti ad una reazione istintiva di difesa rispetto alle emergenze. Reazione comprensibile anche se controproducente”.
Facciamo un esempio concreto: in tutte le aree attorno all’equatore sarà quasi impossibile produrre cibo nei prossimi decenni, però è proprio in quelle zone che si avrà un boom demografico. Due miliardi di persone si aggiungeranno agli otto di oggi esattamente nelle zone meno adatte, le più colpite. Con tutto quel che ne consegue in termini di flussi migratori. Sono regioni nelle quali però c’è la possibilità invece produrre energia o proteine alimentari. Del resto, anche nelle città non si coltiva, ma fanno parte di ecosistemi più complessi nei quali svolgono un ruolo diverso.
Bisognerebbe farlo a livello planetario. “L’alleanza di alcune metropoli mondiali per combattere il cambiamento climatico, il C40, si sta muovendo in questa direzione“, prosegue Myers. “Abbiamo le risorse per cambiare e la tecnologia, bisogna però cambiate attitudine prima che sia troppo tardi”.
C’è un intero capitolo dedicato alle condizioni psicologiche scritto dalla psicologa Susan Clayton. A suo parere le condizioni ambientali in rapido cambiamento stanno già mettendo a dura prova la salute mentale globale e si prevede che tale tributo aumenterà nei prossimi decenni. Depressione e ansia sono tra i problemi più significativi in tutto il mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che la depressione sia la principale causa di disabilità, colpendo più di 300 milioni di persone (il 4,4% della cittadinanza mondiale), e che i disturbi d’ansia colpiscano 264 milioni di soggetti (il 3,6% della cittadinanza).
“L’entità e la gamma degli effetti attuali e di quelli potenziali del degrado ambientale sul benessere mentale richiedono uno sforzo significativo per mitigare tale degrado e considerare i modi per adattarsi alle nuove realtà ambientali“, scrive Clayton. “Ma la diffusa tendenza a ignorare gli impatti ambientali e persino a negare la realtà di alcuni cambiamenti rimane un ostacolo. La negazione è motivata da una serie di fattori diversi: distanza cognitiva ed emotiva dai fenomeni di cambiamento ambientale, riluttanza emotiva ad affrontare le implicazioni spaventose e resistenza ideologica possono portare le persone a ignorare le prove. Sebbene l’ideologia politica sia una delle più forti barriere, la negazione può anche essere motivata dal credo religioso, dalla fede nella tecnologia o semplicemente dal sostegno a uno stile di vita confortevole anche se ad alto consumo. Pertanto, i disaccordi (per esempio sul cambiamento climatico) di solito non riguardano i fatti ma le implicazioni che il problema ha per la società”.
In Salute Planetaria, che è una diretta emanazione della Planetary Health Alliance, organismo nato nel 1016 dalla collaborazione tra la Fondazione Rockfeller e la rivista Lancet, si insiste molto su quel che già sappiamo come chiave per prevenire e mitigare quel che ci aspetta. “Ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo”, hanno scritto gli economisti Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi in Misurare ciò che conta. Al di là del Pil. “Se abbiamo le metriche sbagliate, ci impegneremo per le cose sbagliate. Nel tentativo di aumentare il prodotto interno lordo (Pil), potremmo trovarci con una società in cui la maggior parte dei cittadini vive in condizioni peggiori”, e quindi nel perseguire obiettivi sociali come la felicità, la salute e la sostenibilità ambientale, è fondamentale utilizzare le giuste metriche perché il modo in cui misuriamo il successo modella le nostre azioni.
In ballo c’è il rischio di rendersi conto troppo tardi che la narrativa che usiamo per raccontare noi stessi e il mondo nel quale viviamo è del tutto inadeguata. In questo caso, essendoci un punto di non ritorno oltre il quale sarà impossibile vivere in diverse aree del pianeta come sottolineano già da tanti esperti, potrebbe essere disastroso. La distanza fra il reale e il percepito quando è troppo ampia può spingerci in un vicolo cieco che è all’estremo opposto della capacità di immaginare e prevedere il futuro con una certa accuratezza.
“Non ci stiamo muovendo abbastanza velocemente sulla crisi climatica”, conclude Howard Frumkin. “Stiamo perdendo biodiversità a un ritmo molto rapido mentre i disastri naturali aumentano. E c’è un’ampia letteratura dedicata al nostro destino fatto di disperazione. Eppure c’è una base solida per avere speranza perché non ci sono prove empiriche che abbiamo già perso questa guerra“. La si può vincere, secondo gli autori di questo volume, attraverso pratiche e tecnologie diverse che abbiamo già a portata di mano ad esempio nella produzione di energia, in quella degli alimenti, anche nel campo di una maggiore giustizia distributiva di beni e servizi. Soprattutto bisognerebbe adottare una nuova etica planetaria estendendo i diritti umani al resto del mondo. Puntare sull’attenzione alle relazioni intime tra la biosfera e il benessere umano, rifiutando una chiara distinzione tra animali, paesaggi ed ecosistemi da un lato e umani dall’altro.
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2022-12-10 08:15:52 ,
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Il post dal titolo: Le conseguenze che la crisi climatica avrà sulla nostra salute scitto da [email protected] (Redazione di Green and Blue) il 2022-12-10 08:15:52 , è apparso sul quotidiano online Repubblica.it > Green and blue