Renexia, la società costruttrice, aveva già commissionato uno studio ante operam per valutare l’impatto dei lavori — ad esempio quello delle navi battipalo, incaricate di incastonare le strutture al fondale. Ora però che l’impianto è in funzione (e che resterà operativo per almeno venticinque anni), l’azienda ha intenzione di avviare un monitoraggio triennale. Per farlo, ha messo in palio una borsa di studio vinta da Serena Gatto, giovane laureata in biologia marina che condurrà le ricerche.
Gatto ha discusso a marzo una tesi sull’inquinamento acustico negli abissi. Ora, dal profondo nordest — è friulana, di origini venete — si trasferirà nella città pugliese.
“Si tratta del primo studio per monitorare l’impatto di questo tipo di strutture, e per questo siamo particolarmente grati alla società che lo ha finanziato” afferma la ricercatrice. “Vogliamo scoprire se le vibrazioni prodotte dalle pale eoliche possono influenzare la produzione di suoni dei cetacei, e quindi valutarne l’impatto sui mammiferi”.
A supportare Gatto c’è la Jonian Dolphin Conservation, organizzazione locale impegnata nella tutela di delfini e dei cetacei in generale. “Mi hanno proposto loro di cominciare — riprende la ricercatrice: avevano a disposizione moltissimo materiale raccolto nel corso di dieci anni che però andava analizzato. Così ho imparato a campionare i suoni del mare: poi ne analizzo lo spettrogramma, cioè la rappresentazione dell’intensità in funzione di tempo e frequenza”. Catalogando i dati, si arriverà a valutare l’impatto delle pale, in una analisi necessaria a eventuali interventi di mitigazione. L’idea, inoltre, è quella di definire delle “buone pratiche” da impiegare nel Mediterraneo per gli impianti offshore.
La zona del golfo di Taranto è da sempre molto trafficata. Al traffico commerciale si aggiungono le esercitazioni della Marina Militare, che qui ha una base, e sfrutta il canyon che corre dall’Italia alla Grecia per le esercitazioni dei sommergibili. “Bisogna trovare un punto di incontro tra le necessità dell’uomo e quelle dell’ecosistema creando un’oasi blu” dice Gatto. La differenza rispetto a un’area marina protetta? “In questo caso, non si proibisce la navigazione ma esiste un set di regole di tutela da seguire”. Una tutela che deve essere sovranazionale: “Dalle pinne dei capodogli, sorta di carta di identità della specie, ci si è accorti che gli stessi esemplari trascorrono una stagione in Italia e l’altra vicino al territorio ellenico: per raggiungere gli obiettivi di conservazione servono quindi accordi ampi“.
La “citizen science”
Ma le uscite in mare sono costose, e una piccola organizzazione fatica a sostenerne i costi, a partire da quelli del carburante. Per questo la Jonian Dolphin Conservation le finanzia attraverso attività di citizen science. “Tramite il progetto Ricercatore per un giorno coinvolgiamo turisti, scuole e persone del posto nelle nostre attività” racconta Carmelo Fanizza, direttore operativo dell’associazione. “Abbiamo due catamarani sui quali è possibile imbarcarsi tutti i giorni: chi sale, aiuta i nostri biologi a raccogliere dati che poi vengono analizzati: coordinate, specie avvistate, numero di esemplari, comportamento“. Ci sono, poi, attività più complesse: “Ad esempio, raccogliamo dati acustici con gli idrofoni e campioni di pelle tramite scrub cutaneo. Questo ci consente di contare su una forma di finanziamento costante”. Per chi sale in barca, invece, il biglietto consente di provare un’esperienza interessante e in grado, perché no, di far scoprire passioni nascoste. “Anch’io — rivela Gatto — fui folgorata da un’uscita in barca quando ero bambina”.
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di Antonio Piemontese www.wired.it 2022-08-07 05:00:00 ,