Quando uscì 30 anni fa, L’Età dell’Innocenza stupì pubblico e critica. Tratto dal celeberrimo romanzo di Edith Wharton, portato sullo schermo già nel 1934 e 1977, questo film ambientato nell’alta società newyorkese dell’800, rivelò qualcosa di più e di inedito su Martin Scorsese, sulla sua capacità di essere narratore della ribellione alla dittatura della società e delle sue regole impietose. Ancora oggi rimane qualcosa di molto più che un semplice melodramma, una guida all’esistenza e alle sue difficoltà, alla felicità come ideale irraggiungibile.
Un triangolo amoroso nella seducente New York dell’800
L’Età dell’Innocenza fin dai primi minuti si veste di racconto visivo sensuale, con una voce narrante di Joanne Woodward, che si rivela pregiata per lo spettatore, per familiarizzare con i protagonisti con quel mondo. Scorsese ce ne mostra l’aurea seducente e magnifica, su cui immediatamente, seguendo le parole della Wharton, ne rivela l’anima superficiale, vuota, spietata e materialistica. Quel mondo fatto di buone maniere, pettegolezzi, è un’arena di velenose coltellate alle spalle e soprattutto una religiosa osservanza della reputazione come bene più alto. Scorsese si avvale di scenografie (Dante Ferretti e chi sennò?) e costumi semplicemente abbaglianti. Egli ricrea, con una minuziosità che nessuno gli attribuiva possibile, il mondo dell’alta borghesia newyorkese, quella che cercava di fare il verso all’aristocrazia vittoriana, europea in generale, copiandone modi, usi, riti collettivi incentrati sull’auto celebrazione del loro privilegio.
Lì tra quei saloni facciamo la conoscenza di Newland Archer, uno charmant Daniel Day-Lewis, che a breve dovrà sposarsi con la giovane e candida May Welland (Winona Ryder). Perfetto esemplare del suo tempo e del suo ambiente, Archer tuttavia nasconde una vena di ribellione di cui egli stesso ignora la potenza. Sarà la cugina di May, la contessa polacca Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer) a risvegliare in lui una passione inedita e travolgente. Fuggita dalle grinfie del dispotico marito. esule in un paese e una città dove viene guardata con fastidio e severità, troverà soltanto in Archer e May un appoggio. Per il giovane avvocato però, sarà l’inizio di un tentativo di ribellione, di un amore mai completamente sbocciato, semplicemente ambito, che lo lascerà infine sconfitto, pieno di una nostalgia che sopravviverà al tempo e allo sfiorire della gioventù.
L’Età dell’Innocenza eleva la capacità di Scorsese di dirigere in modo mirabile un cast che, più che interpretare dei personaggi, li riporta letteralmente in vita. La telecamera si muove con fare serpentino e sinuoso, tra luci ed ombre crea un legame verso i personaggi semplicemente unico, a certi tratti insostenibile. Nessuno pensava che Scorsese potesse dirigere un film così teoricamente classico, raffinato, morbido ed elegante. Taxi Driver, Quei Bravi Ragazzi, Re per una Notte, Toro Scatenato lo avevano reso simbolo della New Hollywood rabbiosa. Ma già con L’Ultima Tentazione di Cristo e Cape Fear aveva dimostrato di saper andare oltre ciò che si pensava fosse il suo terreno. L’Età dell’Innocenza affascina perché pur non essendovi fatti di sangue, combattimenti sul ring, sparatorie o assassini, è animato da una violenza profonda, di cui lo stesso Archer fa da bersaglio consapevole.
Egli segue i ritmi e la volontà di un mondo popolato da privilegiati annoiati, cerimonieri untuosi e guardiani ipocriti della morale. Daniel Day-Lewis, fresco di Oscar per Il Mio Piede Sinistro, qui diventa protagonista di un iter spirituale ed emotivo a dir poco universale. Archer non è semplicemente un rampollo annoiato, in lui risplende, al di là di ogni barriera spazio-temporale, la volontà ribellione giovanile in tutta la sua potenza. Liberi di amare, di scegliere il proprio destino, liberi dalle catene di un mondo che ha sovrani, giudici e templi, dove un ballo può segnare una vita. Eppure Archer, con il suo fare in ultima analisi tentennante e quasi irritante in certi momenti, diventa a mano a mano che si va avanti soggetto ad un’impotenza quasi inevitabile. Il suo abbracciare infine la conformità, è tanto raggelante quanto familiare, poiché connesso anche all’avanzare dell’età, alla gioventù che si perde per strada, alla comodità della sconfitta.
La ricerca di una libertà irraggiungibile
L’Età dell’Innocenza naviga elegante armato di dialoghi serpentini di straordinaria fattura, una fotografia di Michael Ballhaus semplicemente perfetta, dove alla luminosità di una New York lussureggiante, si alterna la penombra pittorica di interni dove vengono rubati baci e deboli promesse. Scorsese fa comprendere ad ogni profano l’aria rarefatta di quel mondo, maschilista pure se anche matriarcale, dove cortesemente si chiede e si nega, dove si parla del niente, perché parlare veramente di qualcosa potrebbe essere disdicevole. May, grazie alla sobrietà della Ryder, di quel mondo è simbolo potente e multistrato. Apparentemente dolce ed ingenua, è in realtà il personaggio più complesso del film. Se inizialmente in lei Archer vede il simbolo di una sottomissione totale, a poco a poco si rende conto che tale apparenza è controbilanciata da una scaltrezza notevole. May sa del sentimento nascosto tra Archer e la cugina, e difende il suo legame amoroso con una tattica passivo-aggressiva e una lucidità ammirevoli.
L’Età dell’Innocenza vede Archer sconfitto e costretto a rinunciare ad Ellen e diventa un grande trattato sulla potenza del passato. Quell’amore naufragato nelle spire delle convenzioni sociali è rimasto con Archer per tutta la vita, anche dopo la morte di May. Recatosi ormai anziano a Parigi con il figlio, si chiede se valga la pena riportarlo in vita incontrando Ellen o lasciarlo vestito di quel rimpianto che lo nobilita, che lo rende aulico e perfetto in virtù del non vissuto e non detto. Michelle Pfeiffer, raramente così bella e anche così brava, è la vera vittima del film. Simbolo dell’oppressione del mondo patriarcale e maschilista in cui vive, amata da un uomo senza coraggio e sposata ad uno crudele, non ha altra scelta infine che lasciarsi guidare dagli altri, accettare la strada più facile perché di altre, nella realtà, non ve ne sono per lei. Ed è tra i meravigliosi dialoghi ed interazioni, via via sempre più connessi alla disperazione, alla solitudine, che Scorsese cuce un labirinto di sentimenti che è anche l’analisi di una negazione degli stessi.
L’Età dell’Innocenza funge ancora oggi da modello alternativo alla cinematografia inglese concentrata sullo stesso periodo storico e gli stessi temi, che ha avuto nel grande James Ivory il proprio alfiere. A trent’anni di distanza, occorre ammettere che la sua bellezza, la straordinaria rievocazione d’epoca, scevra dalla sterile volontà ammodernatrice del nostro cinema, lo rendono unico e inimitabile. Rimane una variazione parallela ai temi cari a Scorsese, sulla violenza nella società, la prigionie dei diversi dalla norma, con uno spaccato femminile ancora una volta incredibilmente efficace. Fatto ancora più interessante, il suo parlare di nostalgia senza edulcorarla, ma lasciando il dubbio, l’incertezza nello spettatore, è qualcosa che andrebbe recuperato come antidoto alla prevedibilità. Ancora oggi, nelle oltre due ore di questo melodramma, ci accorgiamo di non sapere per chi patteggiare, a quale amore chiedere di morire.
Forse l’unica verità sta in quella inquadratura finale, in Archer che ormai vecchio, pur potendo rincontrare di nuovo la contessa, si rende conto che quell’amore proibito, funzionava finché rimaneva tale. Averci pensato in tutti questi anni, mentre la sua vita familiare continuava agevolmente con May, dimostratasi una moglie e madre esemplare, l’ha reso ad un tempo pregiato e fragile. Il ricordo, il ricordo è qualcosa di potente, ma un viaggiatore non deve mai tornare sui propri passi, un’amante (come confermerà il Gatsby di Fitzgerald) non deve mai pensare di poter portare in vita un sentimento che è stato vissuto e poi si è esaurito. Si dovrà aspettare Gangs of New York per avere una rievocazione così potente, ma questo film è inimitabile nel parlarci di un certo ecosistema sociale e delle sue caratteristiche, così come dell’impossibilità di una libertà che non tenga conto dell’ambiente che ci circonda.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-09-30 16:00:00 ,